Stracci di libri...

Quelle pagine dei libri che vorresti portare sempre con te...

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  1. _dArKsOuL^
     
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    Oceano mare....matò....c è un qualcosa di magico in quel libro.....
     
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  2. delfinoutopista
     
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    Sì sono bellissimi soprattutto i personaggi...
     
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  3. Pastorius
     
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    Mi associo:Baricco è semplicemente un genio.
    Ho letto Novecento e Seta!
    Avete letto qualcosa da "I Barbari"??
     
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  4. Bluejam
     
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    Il libro dell'Inquietudine
    Fernando Pessoa

    30/12/1932
    Da quando le ultime piogge hanno lasciato il cielo e si sono fermate in terra – cielo pulito, terra umida e tersa – la chiarità della vita che insieme all'azzurro è salita in alto e, nella freschezza per l'acqua che è stata,ha gioito in basso, ha lasciato un suo cielo nell'anima, una sua freschezza nel cuore.
    Siamo, anche se non lo vogliamo, schiavi del momento, dei suoi colori e delle sue forme, sudditi del celo e della terra. Perfino colui che più si rintana in se stesso, disdegnando ciò che lo circonda, costui non si rintana nello stesso modo quando piove o quando i cielo è sereno. Oscure mutazioni, forse avvertite solo nell'intimo dei sentimenti astratti, si verificano perché piove o perché ha smesso di piovere, si avvertono senza che le avvertiamo, perchè senza sentirlo abbiamo sentito il tempo.
    Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso.
    Perciò colui che odia il suo ambiente non è la persona che per esso si rallegra o soffre. Nella vasta colonia del nostro essere c'è una folla di molte specie che pensa e sente in modo diverso. In questo stesso momento in cui scrivo queste poche frasi impressionistiche, durante una sacrosanta sosta del lavoro che oggi è scarso, io sono colui che le scrive attentamente, sono colui che è contento perché in questo momento non deve lavorare,sono colui che sta guardando fuori il cielo, invisibile da qui, sono colui che sta pensando tutto questo, sono colui che sente il suo corpo contento con le sue mani ancora vagamente fredde. E tutto questo mio mondo di persone a se stesse estranee, proietta, come una folla diversa ma compatta, un'unica ombra: questo corpo calmo che scrive, questo corpo col quale mi curvo, in piedi, verso la scrivania alta del signor Borges, dove mi sono recato per prendere la mia carta assorbente che gli avevo prestato.
     
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  5. p31
     
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    Cara Capra
    come ci si innamora? Si casca? Si inciampa, si perde
    l'equilibrio e si cade sul marciapiedi, sbucciandosi
    un ginocchio, sbucciandosi il cuore? Ci si schianta
    per terra, sui sassi? O è come rimanere sospesi oltre
    l'orlo di un precipizio, per sempre?
    So che ti amo quando ti vedo, lo so quando ho voglia
    di vederti. Non un muscolo si è mosso. Nessuna brezza
    agita le foglie. L'aria è ferma. Ho cominciato ad
    amarti senza fare un solo passo. Senza neanche un
    battito di ciglia. Non so neppure quando è successo.
    Sto bruciando. E' troppo banale per te? No, e lo sai.
    Vedrai. E' quello che capita, è quello che importa.
    Sto bruciando.
    Non mangio più, mi dimentico di mangiare, mi sembra
    una cosa sciocca, che non c'entra. Se ci bado. Ma non
    bado a niente. I miei pensieri straripano furiosi, una
    casa piena di fratelli, legati dal sangue che si
    dilaniano in una faida:
    "Mi sto innamorando"
    "Tipica scelta stupida"
    "Eppure..... l'amore mi tormenta come fosse dolore"
    "Sì, continua così, manda a puttane la tua vita. E'
    tutto sbagliato e lo sai. Svegliati. Guarda le cose in
    faccia".
    "C'è una faccia sola, l'unica che vedo, quando dormo e
    quando non dormo".
    Stanotte ho buttato il libro dalla finestra. Ho
    provato a dimenticare. Tu non vai bene per me, lo so,
    ma quello che penso non mi interessa più, a meno che
    non pensi a te. Quando sono accanto a te, davanti a
    te, sento i tuoi capelli che mi sfiorano la guancia
    anche se non è vero. Qualche volta guardo altrove. Poi
    ti guardo di nuovo.
    Quando mi allaccio le scarpe, quando sbuccio
    un'arancia, quando guido la macchina, quando vado a
    dormire ogni notte senza di te, io resto
    come sempre
    Montone

    da "La lettera d'amore" di Cathleen Schine
     
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  6. bas_luc05
     
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    Accadono cose che sono come domande.
    Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.

    °°°°°

    Perché è così che ti frega la vita.
    Ti piglia quando hai ancora l'anima addormentata e ti semina dentro un'immagine,
    o un odore, o un suono che poi non te li togli più.
    E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quando è troppo tardi.
    E già sei, per sempre, un esule: a migliaia di chilometri
    da quell'immagine, da quel suono, da quell'odore. Alla deriva

    °°°°°

    Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé,
    qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita.
    Nella notte del ricordo, ardono quelli, disegnando la via di fuga della sorte.
    Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.

    °°°°°

    Stava lì, come una candela accesa in un granaio che brucia.

    °°°°°

    Semplicemente, senza che un solo angolo del suo volto si muovesse,
    e assolutamente in silenzio, iniziò a piangere,
    in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi,
    come bicchieri pieni fino all'orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince
    e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre,
    e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta.

    °°°°°

    Ma quando ti viene quella voglia di piangere pazzesca,
    che proprio ti strizza tutto, che non la riesci a fermare,
    allora non c'è verso di spiaccicare una sola parola,
    non esce più niente, ti torna tutto indietro, tutto dentro,
    ingoiato da quei dannati singhiozzi,
    naufragato nel silenzio di quelle stupide lacrime.
    Maledizione. Con tutto quello che uno vorrebbe dire...
    E invece niente, non esce fuori niente.
    Si può essere fatti peggio di così?

    °°°°°

    I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto.
    Così, alle volte, vale la pena di non dormire pur di stare dietro ad un proprio desiderio.
    Si fa la schifezza e poi la si paga. E solo questo è davvero importante:
    che quando arriva il momento di pagare uno solo non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare.
    Solo questo è importante.

    °°°°°

    "La musica è l'armonia dell'anima"

    °°°°°

    La sera, come tutte le sere, venne la sera.
    Non c'è niente da fare: quella è una cosa che non guarda in faccia a nessuno.
    Succede e basta. Non importa che razza di giorno arriva a spegnere.
    Magari era stato un giorno eccezionale, ma non cambia nulla. Arriva e lo spegne. Amen.
    Così anche quella sera, come tutte le sere, venne sera.

    °°°°°

    Ognuno ha il mondo che si merita.
    Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale.

    °°°°°

    La verità è che si vedono e si sentono e si toccano così tante cose...
    è come se ci portassimo dentro un vecchio narratore
    che per tutto il tempo continua a raccontarci una storia mai finita e ricca di mille particolari.
    Lui racconta, non smette mai, e quella è vita.

    °°°°°

    ..quel che di bello c'è nella vita è smpre un segreto... per me è stato così...
    quelle che si sanno sono le cose normali, o le cose brutte, ma poi ci sono dei segreti,
    ed è lì che si va a nascondere la felicità.. a me è successo così.. sempre...

    °°°°°

    C'erano cose che uno qualunque avrebbe tranquillamente guardato,
    magari ne sarebbe stato anche un po' colpito, magari si fermava anche un attimo,
    ma poi era in fondo una cosa come le altre, ordinatamente in fila come le altre.
    Ma per lui quelle stesse cose erano prodigi, esplodevano come incantesimi, diventavano visioni.
    Poteva essere la partenza di una corsa di cavalli, ma poteva anche essere semplicemente
    un improvviso colpo di vento, la risata sul volto di qualcuno, il bordo d'oro di un piatto, o un niente...
    La vita faceva una mossa: e la meraviglia si impadroniva di lui.

    °°°°°

    .. quando la gente ti dirà che hai sbagliato... e avrai errori dappertutto dietro al schiena, fregatene.
    Ricordatene. Devi fregartene. Tutte le bocce di cristallo che hai rotto erano solo vita...
    non sono quelli gli errori... quella è vita... e la vita vera magari è proprio quella che si spacca,
    quella vita su cento che alla fine si spacca..... io questo l'ho capito, il mondo è pieno di gente
    che gira con in tasca le sue piccole biglie di vetro....le sue piccole tristi biglie infrangibili.....
    e allora tu non smetterla mai di soffiare nelle tue sfere di cristallo.....
    sono belle, a me è piaciuto guardarle, per tutto il tempo che ti sono stato vicino...
    ci si vede dentro tanta di quella roba..... é una cosa che ti mette l'allegria addosso..
    .non smetterla mai..... e se un giorno scoppieranno anche quella sarà vita,
    a modo suo..... meravigliosa vita.

    °°°°°

    La vita è sostanzialmente incoerente e la prevedibilità dei fatti una illusoria consolazione.

    °°°°°

    La realtà ha una coerenza, illogica ma effettiva.

    °°°°°

    "come sarebbe bello dire 'per caso'? ..
    Tu credi davvero che ci sia qualcosa che succede 'per caso'?



    Castelli di rabbia (Baricco).
     
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  7. _dArKsOuL^
     
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    CITAZIONE (bas_luc05 @ 19/2/2007, 21:10)
    Ma quando ti viene quella voglia di piangere pazzesca,
    che proprio ti strizza tutto, che non la riesci a fermare,
    allora non c'è verso di spiaccicare una sola parola,
    non esce più niente, ti torna tutto indietro, tutto dentro,
    ingoiato da quei dannati singhiozzi,
    naufragato nel silenzio di quelle stupide lacrime.
    Maledizione. Con tutto quello che uno vorrebbe dire...
    E invece niente, non esce fuori niente.
    Si può essere fatti peggio di così?

    è stupendamente vero....
     
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    Per me, io sono colui che mi si crede

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    scusatemi ragazzi so ke è lunghetta, ma a mio avviso è la più bella novella di pirandello tratta da "La mosca":

    Mondo di carta

    Un gridare, un accorrere di gente in capo a Via Nazionale, attorno a due che s'erano presi: un ragazzaccio sui quindici anni, e un signore ispido, dalla faccia gialliccia, quasi tagliata in un popone, su la quale luccicavano gli occhialacci da miope, grossi come due fondi di bottiglia.
    Sforzando la vocetta fessa, quest'ultimo voleva darsi ragione e agitava di continuo le mani che brandivano l'una un bastoncino d'ebano dal pomo d'avorio, l'altra un libraccio di stampa antica.
    Il ragazzaccio strepitava pestando i piedi sui cocci di una volgarissima statuetta di terracotta misti a quelli di gesso abbronzato della colonnina che la sorreggeva.
    Tutti attorno, chi scoppiava in clamorose risate, chi faceva un viso lungo lungo e chi pietoso: e i monelli, attaccati ai lampioni, chi abbajava, chi fischiava, chi strombettava sul palmo della mano.
    - È la terza! è la terza! - urlava il signore. - Mentre passo leggendo, mi para davanti le sue schifose statuette, e me le fa rovesciare. È la terza! Mi si dà la caccia! Si mette alle poste! Una volta al Corso Vittorio; un'altra a Via Volturno; adesso qua.
    Tra molti giuramenti e proteste d'innocenza, il figurinajo cercava anch'esso di farsi ragione presso i piú vicini:
    - Ma che! È lui! Non è vero che legge! Mi ci vien sopra! O che non veda, o che vada stordito, o che o come, fatto si è...
    - Ma tre? Tre volte? - gli domandavano quelli tra le risa.
    Alla fine, due guardie di città, sudate, sbuffanti, riuscirono tra tutta quella calca a farsi largo; e siccome l'uno e l'altro dei contendenti, alla loro presenza, riprendevano a gridare piú forte ciascuno le proprie ragioni, pensarono bene, per togliere quello spettacolo, di condurli in vettura al piú vicino posto di guardia.
    Ma appena montato in vettura, quel signore occhialuto si drizzò lungo lungo sulla vita e si mise a voltare a scatti la testa, di qua, di là, in su, in giú; infine s'accasciò, aprì il libraccio e vi tuffò la faccia fino a toccar col naso la pagina; la sollevò, tutto sconvolto, si tirò sulla fronte gli occhialacci e rituffò la faccia nel libro per provarsi a leggere con gli occhi soltanto; dopo tutta questa mimica cominciò a dare in smanie furiose, a contrarre la faccia in smorfie orrende, di spavento, di disperazione:
    - Oh Dio. Gli occhi. Non ci vedo piú. Non ci vedo piú!
    Il vetturino si fermò di botto. Le guardie, il figurinajo, sbalorditi, non sapevano neppure se colui facesse sul serio o fosse impazzito; perplessi nello sbalordimento, avevano quasi un sorriso d'incredulità sulle bocche aperte.
    C'era là una farmacia; e, tra la gente ch'era corsa dietro la lettura e l'altra che si fermò a curiosare, quel signore, tutto scompigliato, cadaverico in faccia, sorretto per le ascelle, vi fu fatto entrare.
    Mugolava. Posto a sedere su una seggiola, si diede a dondolare la testa e a passarsi le mani sulle gambe che gli ballavano, senza badare al farmacista che voleva osservargli gli occhi, senza badare ai conforti, alle esortazioni, ai consigli che gli davano tutti: che si calmasse; che non era niente; disturbo passeggero; il bollore della collera che gli aveva dato agli occhi. A un tratto, cessò di dondolare il capo, levò le mani, cominciò ad aprire e chiudere le dita.
    - Il libro! Il libro! Dov'è il libro?
    Tutti si guardarono negli occhi, stupiti; poi risero. Ah, aveva un libro con sé? Aveva il coraggio, con quegli occhi, di andar leggendo per istrada? Come, tre statuette? Ah sì? e chi, chi, quello? Ah sì? Gliele metteva davanti apposta? Oh bella! oh bella!
    - Lo denunzio! - gridò allora il signore, balzando in piedi, con le mani protese e strabuzzando gli occhi con Contorcimenti di tutto il volto ridicoli e pietosi a un tempo. - In presenza di tutti qua, lo denunzio! Mi pagherà gli occhi! Assassino! Ci sono due guardie qua; prendano i nomi, subito, il mio e il suo. Testimoni tutti! Guardia, scrivete: Balicci. Sì, Balicci; è il mio nome. Valeriano, sì, via Nomentana 112, ultimo piano. E il nome di questo manigoldo, dov'è? è qua? Io tengano! Tre volte, approfittando della mia debole vista, della mia distrazione, sissignori, tre schifose statuette. Ah, bravo, grazie, il libro, sì, obbligatissimo! Una vettura, per carità. A casa, a casa, voglio andare a casa! Resta denunziato.
    E si mosse per uscire, con le mani avanti; barellò; fu sorretto, messo in vettura e accompagnato da due pietosi fino a casa.

    Fu l'epilogo buffo e clamoroso d'una quieta sciagura che durava da lunghissimi anni. Infinite volte, per unica ricetta del male che inevitabilmente lo avrebbe condotto alla cecità, il medico oculista gli aveva detto di smettere la lettura. Ma il Balicci aveva accolto ogni volta questa ricetta con quel sorriso vano con cui si risponde a una celia troppo evidente.
    - Noè - gli aveva detto il medico. - E allora séguiti a leggere, e poi mi lodi la fine! Lei ci perde la vista, glielo dico io. Non dica poi, se me lo credevo! Io la ho avvertita!
    Bell'avvertimento! Ma se vivere, per lui, voleva dir leggere! Non dovendo piú leggere, tanto valeva che mousse.
    Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella mania furiosa. Affidato da anni e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe potuto campare sul suo piú che discretamente, se per l'acquisto dei tanti e tanti libri che gl'ingombravano in gran disordine la casa, non si fosse perfino indebitato. Non potendo piú comprarne di nuovi, s'era dato già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno tutti quanti dalla prima all'ultima pagina. E come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, così a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli. Discesa a grado a grado tutta la scala della miopia, ormai da alcuni anni pareva che i libri se li mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli.
    Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujo, non s'illuse piú neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena poté uscire di camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese, lo aprì, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in vettura; e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro per l'ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lì, tutto il suo mondo! E non poterci piú vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la memoria!
    La vita, non l'aveva vissuta: poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva piú leggere.
    La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte s'era proposto di mettere un po' d'ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per materie, e non l'aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l'avesse fatto, ora, accostandosi all'uno o all'altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno confuso, meno sparpagliato.
    Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si incaricasse di quel lavoro d'ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinetto saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere, quel giovanotto, che - via - doveva essere uscito di cervello quel pover'uomo, se per ogni libro che gli nominava, eccolo là, saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora, palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.
    - Professore, - sbuffava il giovanotto. - Ma così badi che non la finiamo piú!
    - Sì, sì, ecco, ecco, - riconosceva subito il Balicci. - Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l'ha messo. Bene, bene qua, per sapermi raccapezzare.
    Erano per la maggior parte libri di viaggi, d'usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze naturali e di amena letteratura, libri di storia e di filosofia.
    Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il bujo gli s'allargasse intorno in tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase come rimbozzolito a contarlo.

    Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro. Scene, episodii, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta, spiccata evidenza: rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli erano rimasti piú impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla punta dell'alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a un erto viale, su lo sfondo di fiamma d'un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le sacche del fieno alla testa.
    Ma non poté reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com'era veramente e non come lui in confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità. Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza requie, e anche per il modo di parlare dava l'immagine d'una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e s'arrestasse d'un subito, con furioso sbàttito d'ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.
    Irruppe nello studio, gridando il suo nome:
    - Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già... me lo... sicuro, Balicci, c'era scritto sul giornale... anche su la porta.. Oh Dio per carità, no! guardi, professore, non faccia così con gli occhi. Mi spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.
    Questa fu la prima entrata. Non se n'andò. La vecchia domestica, con le lagrime agli occhio le dimostrò che quello era per lei un posticino proprio per la quale.
    - Niente pericoli?
    Ma che pericoli! Mai, che è mai? Solo, un po' strano, per via di quei libri. Ah, per quei libracci maledetti, anche lei, povera vecchia, eccola là, non sapeva piú se fosse donna o strofinaccio.
    - Purché lei glieli legga bene.
    La signorina Tilde Pagliocchini la guardò, e appuntandosi l'indice d'una mano sul petto:
    - Io?
    Tirò fuori una voce, che neanche in paradiso.
    Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa quanto superflua, il pover'uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.
    - No! Così no! Così no! per carità! - si mise a gridare.
    E la signorina Pagliocchini, con l'aria piú ingenua del mondo:
    - Non leggo bene?
    - Ma no! Per carità, a bassa voce! Piú bassa che può! quasi senza voce! Capirà, io leggevo con gli occhi soltanto, signorina!
    - Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche della dita sul libro). Non suona! Sordo. Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.
    Il Balicci s'interina pallido:
    - Le proibisco!
    - Ma no, scusi! Teme che glielo dia davvero? Non glielo do! Dicevo per farle avvertir subito la differenza. Ecco, mi provo a leggere quasi senza voce. Badi però che, leggendo così, io fischio l'esse, professore!
    Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Sila comprese che, su per giú, sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce, che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.
    - Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.
    La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d'occhi
    - Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?
    - Sì, ecco, per conto suo.
    - Ma grazie tante! - scattò, balzando in piedi, la signorina. - Lei si burla di me? Che vuole che me ne faccia io, dei suoi libri, se lei non deve sentire?
    - Ecco, le spiego, - rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. - Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel'ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento, le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà... oh, basterà un cenno... e io la seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!
    - Ma io la prego di credere, professore, che la mia voce è bellissima! - protestò, sulle furie, la signorina.
    - Lo credo, lo so - disse subito il Balicci. - Non voglio farle offesa. Ma mi colora tutto diversamente, capisce? E io ho bisogno che nulla mi sia alterato; che ogni cosa mi rimanga tal quale. Legga, legga. Le dirò io che cosa deve leggere. Ci sta?
    - Ebbene, ci sto, sì. Dia qua!
    In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde Pagliocchini volava via dallo studio e se n'andava a conversare di là con la vecchia domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: - Bello, eh? - oppure: - Ha voltato? - Non sentendola nemmeno fiatare, s'immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che non gli rispondesse per non distrarsene.
    - Sì, legga, legga... - la esortava allora, piano, quasi con voluttà.
    Talvolta, rientrando nello studio, la signorina Pagliocchini trovava il Balicci coi gomiti su i bracciuoli della poltrona e la faccia nascosta tra le mani
    - Professore, a che pensa?
    - Vedo... - le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi, riscotendosi con un sospiro: - Eppure ricordo che erano di pepe!
    - Che cosa, di pepe, professore?
    - Certi alberi, certi alberi in un viale... Là, veda, nella terza scansia, al secondo palchetto, forse il terz'ultimo libro.
    - Lei vorrebbe che io le cercassi, ora, questi alberi di pepe? - gli domandava la signorina, spaventata e sbuffante.
    - Se volesse farmi questo piacere.
    Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s'irritava alle raccomandazioni di far piano. Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe piú tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto, alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:
    - Ma che! ma che! ma che! - proruppe su tutte le furie. - Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com'è detto qua!
    Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d'ira e convulso:
    - Io le proibisco di dire che non è com'è detto là! - le gridò, levando le braccia. - M'importa un corno che lei c'è stata! È com'è detto là, e basta. Dev'essere così, e basta! Lei mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può piú stare qua! Mi lasci solo! Se ne vada!
    Rimasto solo, Valeriano Balicci, dopo aver raccattato a tentoni il libro che la signorina aveva scagliato a terra, cadde a sedere su la poltrona: aprì il libro, carezzò con le mani tremolanti le pagine gualcite, poi v'immerse la faccia e restò lì a lungo, assorto nella visione di Trondhjem con la sua cattedrale di marmo, col cimitero accanto, a cui i devoti ogni sabato sera recano offerte di fiori freschi- così, così com'era detto là. Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l'ombra azzurra della cattedrale. - Niente lì si doveva toccare. Era così, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo.


     
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  9. ludega
     
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    In quel momento apparve la volpe.
    “Buon giorno”, disse la volpe
    “buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
    “Sono qui” , disse la voce, “sotto al melo…”
    “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”
    “Sono una volpe”, disse la volpe.
    “Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, “ sono così triste…”
    “Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.
    “Ah! Scusa”. Fece il piccolo principe.
    Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”
    “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe, “che cosa cerchi?”
    “Cerco gli uomini” disse il piccolo principe.
    “Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”
    “Gli uomini”, disse la volpe, “hanno dei fucili e cacciano. E’ molto noioso! Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?”
    “No” disse il piccolo principe. “cerco degli amici. Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”
    “E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’…”
    “Creare dei legami?”
    “Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
    “Comincio a capire”, disse il piccolo principe. “C’è un fiore…credo che mi abbia addomesticato…”
    “E’ possibile”, disse la volpe. “Capita di tutto sulla Terra…”
    “Oh! Non è sulla Terra”, disse il piccolo principe.
    La volpe sembrò perplessa: “Su un altro pianeta?”
    “Si”.
    “Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?”
    “No”.
    “Questo mi interessa! E delle galline?”
    “No”.
    “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe.
    Ma la volpe ritornò alla sua idea:
    “la mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto la sabbia. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi guarda! Vedi , laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

    Il piccolo principe
     
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  10. A i s h a
     
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    wow il piccolo principe... bellissimo...

    "Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!"


     
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  11. Tattela
     
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    complimenti ludega... è la parte che preferisco! Anche a me è piaciuto tantissimo il Piccolo Principe!
     
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  12. ludega
     
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    questo passo del piccolo principe l'ho amato fin dalla prima lettura :wub:
     
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  13. marypull86
     
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    io il piccolo principe l'ho letto alle scuole medie e l'ho odiato...riletto al liceo ed amato
     
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  14. p31
     
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    "Lei mi ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse" piangeva il giovane studente; "ma in tutto il mio giardino non c'è una rosa rossa"
    Dal nido su un olmo un usignolo lo udì, guardò tra le foglie e si meravigliò.
    "Nessuna rosa rossa in tutto il mio giardino!" piangeva il ragazzo, e i suoi bellissimi occhi si riempivano di lacrime. "Ah, da che piccole cose dipende la felicità! Ho letto che tutti i saggi l'hanno scritto, solo per una rosa rossa la mia vita è diventata miserabile".
    "Alla fine ho trovato una persona che ama veramente" disse l'usignolo.
    Notte dopo notte ho cantato di lui, anche se non lo conoscevo: notte dopo notte ho raccontato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo.
    I suoi capelli sono neri come i fiori del giacinto e le sue labbra sono rosse come la rosa che desidera; ma la passione ha reso il suo volto pallido come l'avorio, e il dolore ha lasciato il segno sulla sua fronte.
    "Il Principe darà un ballo domani sera" mormorò il giovane studente "e la mia amata sarà della compagnia". Se le porto una rosa rossa lei ballerà con me fino all'alba. Se le porto una rosa rossa, potrò stringerla fra le mie braccia, e lei poserà la sua testa sulla mia spalla, e la sua mano sarà stretta nella mia. Ma non ci sono rose nel mio giardino, così dovrò sedere solo e lei mi passerà vicino. Il mio cuore si spezzerà.
    "Si, questa è una persona che ama veramente" disse l'usignolo.
    "Ciò di cui cantavo egli soffre, ciò che è gioia per me per lui è sofferenza. L'amore vero è una cosa meravigliosa. E' più preziosa di smeraldi, e più cara degli opali non può essere merce dei mercanti, e non può essere pesata nella bilancia dell'oro."
    "I musicisti siederanno nella loro galleria" disse il giovane studente, "e suoneranno con i loro strumenti a corda, e la mia amata danzerà al suono dell'arpa e del violino. Danzerà in modo così leggero che i suoi piedi non toccheranno il pavimento. Ma con me lei non danzerà, poiché non ho rose rosse da darle"; e si gettò sull'erba e pose il suo volto fra le sue mani, e pianse.
    "Perché piange?" Chiese una lucertola verde, "Già , perché piange?" chiesero una farfalla e una margherita; "piange per una rosa rossa" disse l'usignolo, "Per una rosa rossa??" dissero "Ridicolo!" e risero. Ma l'usignolo capiva il segreto del dolore dello studente, e stette in silenzio sull'olmo, e pensò al mistero dell'amore. All'improvviso aprì le ali per volare e spiccò il volo nell'aria; passò nel bosco come un'ombra, e come un'ombra attraversò il giardino.
    Nel centro di un'aiuola stava un bellissimo roseto, e quando lo vide volò sopra di esso.
    "Dammi una rosa rossa " pianse l'usignolo, " e io canterò per te la mia canzone più dolce."
    Ma il roseto scosse la testa. "Le mie rose sono bianche" rispose "Ma vai da mio fratello che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse ti darà ciò che vuoi".
    Così l'usignolo volò sopra il roseto che stava crescendo intorno alla vecchia meridiana. "Dammi una rosa rossa", supplicò l'usignolo, "e io canterò per te la mia canzone più dolce".
    Ma il roseto scosse la testa. "Le mie rose sono gialle" rispose "ma vai da mio fratello che cresce sotto la finestra dello studente e forse ti darà ciò che vuoi".
    Così l'usignolo volò sul roseto che cresceva sotto la finestra dello studente. "Dammi una rosa rossa" supplicò l'usignolo "e io canterò per te la mia canzone più dolce". Ma il roseto scosse la testa; "le mie rose sono rosse" rispose "Più rosse della barriera corallina delle caverne dell'oceano, ma l'inverno ha gelato le mie vene, e il freddo ha gelato i miei boccioli, e la tempesta ha spezzato i miei rami, e non avrò rose quest'anno".
    "Solo una rosa rossa voglio!" supplicò l'usignolo, "solo una rosa rossa! Non c'è modo di averla?".
    "C'è un modo", rispose il roseto; "ma è così terribile che non oso dirtelo".
    "Dimmelo" disse l'usignolo, "non ho paura".
    "Se vuoi una rosa rossa", disse il roseto, "devi cantare le tue canzoni tutta la notte e tingerle con il sangue del tuo cuore. Devi cantare con una spina nel petto, devi cantare per me tutta la notte e la spina deve colpire il tuo cuore, e il tuo sangue deve scorrere nelle mie vene e divenire mio".
    "La morte è un grande prezzo da pagare per una rosa rossa" pianse l'usignolo, "e la vita è più preziosa di tutto. E' bello sedere nel bosco e guardare il Sole con il suo carro d'oro, e la Luna col suo carro di perla. Ma l'amore è più grande della vita, e quanto vale il cuore di un uccellino rispetto al cuore di un uomo?".
    Così l'usignolo aprì le sue ali e volò come un'ombra sul bosco e vide il ragazzo dove l'aveva lasciato, con gli occhi ancora bagnati dalle lacrime, "Sii felice" pianse l'usignolo, "avrai la tua rosa rossa. Ciò che ti chiedo tornando ora è che dovrai essere una persona che ama veramente, perché l'amore è più saggio della filosofia, che è saggia, e più forte del potere, che è forte".
    Lo studente alzò gli occhi e ascoltò, ma non poteva capire ciò che l'usignolo gli stava dicendo, poiché egli sapeva solo ciò che era scritto nei libri.
    Ma l'olmo sentì e fu triste "cantami l'ultima canzone" gli chiese "perché io sarò solo quando te ne sarai andato"; e l'usignolo cantò all'olmo e la sua voce era come acqua che sgorgava da una fonte d'argento. "Canta molto bene" si disse lo studente alzandosi da terra e andandosene, "nessuno può negarlo, ma quell'usignolo ha sentimenti? Ho paura di no! Infatti quell'uccellino è come molti artisti, ha molta classe e poca sincerità! Non si sacrificherebbe mai per gli altri. Pensa meramente alla musica, e tutti sanno che l'arte è egoista. Fermo restando che devo ammettere che la sua musica ha bellissime note. Peccato che non significa niente e non ha nella pratica nulla di buono!", e andò nella sua stanza, si distese sul letto e cominciò a pensare alla sua amata, e cadde addormentato.
    Quando la Luna brillò nel cielo, l'usignolo volò sul roseto e pose il suo petto sulla spina.
    Tutta la notte cantò, e la Luna fredda e cristallina ascoltava. Tutta la notte cantò e la spina entrava sempre più a fondo nel petto dell'uccellino e il sangue scorreva via da lui.
    Una rosa stava nascendo petalo dopo petalo, come canzone dopo canzone. All'inizio era pallida poi cominciò a colorarsi.
    Ma il roseto chiese all'usignolo di premere di più sulla spina "Premi più forte" disse, "o il giorno arriverà prima che la rosa sia finita".
    Così l'usignolo spinse il suo petto sulla spina cantando sempre più forte le sue canzoni, e cantò dell'amore che nasce nel cuore di un uomo e di una fanciulla.
    "Premi più forte" disse ancora il roseto; e l'usignolo spinse il suo petto cosicché la spina toccò il suo cuore e una fitta di dolore pervase il povero uccellino. Amara diveniva la sua canzone e selvaggio il suo canto; cantò come l'amore è perfezionato dalla morte, e che l'amore non muore nella tomba.
    La rosa divenne rossa, e come un rubino aveva il cuore. Ma la voce dell'usignolo divenne più lieve, le sue ali si chiusero e infine chiuse gli occhi.
    Cantò la sua ultima canzone, la Luna l'ascoltò e si attardò nel cielo; la rosa rossa l'ascoltò e tremò per l'entusiasmo e aprì i suoi petali alla fresca aria del mattino.
    "Guarda! Guarda!" gridò il roseto "La rosa è terminata", ma l'usignolo non rispondeva più, ora era disteso sul prato con la spina nel petto.
    Lo studente aprì la finestra e guardò fuori e vide la rosa, "Che fortuna!" gridò; "Ecco una rosa rossa! Non ne ho mai viste così in tutta la mia vita", si sporse e la colse.
    Si mise il cappello e corse alla casa del professore con la rosa in mano.
    La figlia del professore stava seduta vicino alla porta e il suo cagnolino si trovava ai suoi piedi.
    "Hai detto che avresti danzato con me se ti avessi portato una rosa rossa", disse lo studente "Ecco la rosa più rossa del mondo! La terrai stasera vicino al tuo cuore e quando danzeremo insieme ti ricorderà che ti amo"
    Ma la fanciulla aggrottò la fronte. "Temo che non andrà bene col mio abito", rispose "e, inoltre, il nipote del ciambellano mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto di più dei fiori!"
    "Sei ingrata!" disse lo studente arrabbiato; e gettò la rosa nella strada, dove finì sotto le ruote di un carro.
    "Ingrata!" disse la ragazza, "E io ti dico che tu sei rude! E dopo tutto chi sei tu? Solo uno studente! E non credo che tu abbia mai avuto delle rifiniture d'argento alle scarpe come le ha il nipote del ciambellano!" si alzò dalla sedia e rientrò nella casa.
    "Che stupida cosa è l'amore" disse lo studente andandosene, "Non è utile nemmeno la metà della Logica, non prova nulla, e dice sempre a qualcuno delle cose che non accadranno, facendo credergli cose che non sono vere. Infatti è poco pratico, e, a questa età, essere pratici è tutto! Tornerò ai miei studi di filosofia e metafisica".
    Così tornò nella sua stanza, tirò fuori un grande libro e cominciò a leggere.




    The Nightingale and the Rose
    Oscar Wilde
     
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  15. Bluejam
     
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    Donna Trisìna aspettò che il sacrestano se ne niscisse dalla chiesa, poi si fece la croce, si susì e s'avviò verso la sacristìa. Trasì cautelosa. La luce primentìa del giorno le bastò per assicurarsi che nel locale non c'era anima criàta. Proprio allato al grande armuàr di piscipàino dove stavano i paramenti, una porticina s'apriva su una scala di legno che portava al quartino in dove che il parrino c'aveva l'abitazione.
    Patre Artemio Carnazza era un omo che stava a mezzo tra la quarantina e la cinquantina, rosciano, stacciùto, amava mangiari e bìviri. Con animo cristiano era sempre pronto a prestare denaro ai bisognevoli e doppo, con animo pagano, si faceva tornare narrè il doppio e macari il triplo di quello che aveva sborsato. Soprattutto, patre Carnazza amava la natura. Non quella degli aciddrùzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracatafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi alla fantasia del Criatore: ora nìvura come l'inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l'erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un'altra volta corta corta come appena falciata, un'altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvaggio. Sempre si maravigliava quando che ne vedeva una nova,perché nova novissima era veramente con tutto il suo particulare da scoprire, da percorrere centilimetro appresso centilimetro fino alla grotticella càvuda e ùmita dintra alla quale trasìre a lento a lento, adasci, che doppo era la grotticella istessa ad afferrarti stretto, a inserrarti le sue pareti intorno, a portarti fino al fondo più fondo in dove che stimpagna l'acqua della vita.
    Donna Trisìna acchianò la scala di legno un piede leva l'altro metti, attenta a non fare rumorata perchè il legno, di gradino in gradino, aumentava di scrùscio, faceva come un lamento.
    “Meglio accussì” le aveva spiegato il parrino “pirchì se qualichiduno mi viene a cercare,io lo sento che sta arrivando.”
    Intanto che donna Trisìna acchianava, patre Carnazza si era levato la tonaca e sopra la maglia e le mutanne aveva indossato la vistaglia che gli era stata rigalata da una delle sue parrocciane, di seta rossa e arricamata d'oro che manco il vìscovo.
    Visto che il parrino non stava nella càmmara di mangiare (doppo la prima messa faceva colazioni con mezzo litro di latte di capra e mezza dozzina d'ova fritte), donna Trisìna s'accosto alla porta della càmmara di letto e taliò dintra, sporgendo appena la testa. Le persiane erano accostate, ma trapelava la luce di una giornata che avrebbe portato calura. Non vide a nisciuno manco lì. Si fece pirsuasa che patre Artemio era stato necessitato a chiudersi nel cammarìno di còmmodo per dare soddisfazione a un bisogno naturale. Avanzò d'un passo. E il parrino, che stava riparato darrè la porta tenendo il respiro, niscì di colpo, l'abbrancò per di dietro, la spingì contro il letto, l'obbligò a mettersi affacciabocconi. Donna Trisìna riniscì a fare voci per lo scanto che si era pigliata, ma quanno sentì la mano libera di patre Artemio (l'altra gliela teneva premuta dula schiena per mantenerla ferma nella posizione) decisamente infilarsi sotto la gonna, reagì gridando un “no!” secco come una scopettata. Il parrino parse non averla sentita, respirava accussì forte che pareva gli dovesse venire un sintòmo da un momento all'altro. Donna Trisìna capì che la posizione nella quale il parrino la teneva era assai perigliosa, isò un piede e sparò un càvucio all'urbigna. Pigliato in pieno nei cabasisi, patre Artemio lassò la presa e si piegò in due, la bocca spalancata a cercare aria.
    Trisìna ne approfittò per susìrisi dal letto e riaggiustarsi il vestimento.
    “Ci dissi di no!” fce arraggiata. “Ci dissi che l'atto intero non lo vogio fare! Ancora càvudo nella tomba è il povero marituzzo mio!”
    Patre Carnazza era ancora intordonuto per il dolore, ma alle parole di donna Trisìna si sentì acchianare il sangue alla testa.
    “Ma che minchiate mi vieni a contare! Macari Lazzaro doppo due jorna di tomba feteva! Che mi vieni a dire di càvudo e càvudo doppo che quel grandissimo cornuto di to' marito è morto da tre anni!”
    Senza degnarlo di una parola di risposta, la fìmmina tornò nella càmmara di mangiari, pigliò una seggia, s'assittò. Il parrino, doppo tanticchia, fece l'istesso: se Trisìna non se n'era andata sdignata, veniva a dire che le trattative potevano continuare.
    Quella storia durava da uan decina di jorna, Trisìna doppo la messa s'appresentava nel suo quartino, ma appena che lui ci metteva una mano sopra quella s'arrivoltava come la vipera che era. Quant'era beddra, però, la pìpera! Non ci sapeva resistere. Si fece persuaso che ancora una volta, per ottenere qualiche cosuzza da lei, doveva pagare.
    Fino a quel momento, la taliàta di una minna nuda gli era costata cento grammi di cafè bono; la taliàta di tutt'e due le minne nude, trecento grammi di zùccaro; una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana e relative sottotazze; una passata di mano a lèggio a lèggio sopra le minne nude, un cucchiarino di vero argento; una vasata per ogni capezzolo, un rotolo di tela matapollo finissima per fare camicie. Trisìna era fìmmina di agevole stato, il marito le aveva lasciato case e terreni, ma aveva, in prìmisi, un istinto di gazza latra e, in secùndisi, una testa di vera buttana alla quale piaceva farsi pagare.
    “Questa troia mi sta spogliando la casa” pinsò amaramente il parrino “e mi permette di trafficare solo nei suoi piano alti!”
    E fu allora che gli venne l'idea di come alloggiare meglio in quei piani alti.
    Trisìna intanto si taliàva torno torno.
    “Quant'è bello quel lume!” sclamò.
    E lo contemplò con le labbra mezzo aperte, che si vedeva la punta della lingua. A quella vista, il fiato del parrino sonò come un mantice.
    “Ti piace?”
    “Essì” fece Trisìna tirando fora la lingua e passandosela sopra le due vampe di foco ch'erano le sue labbra. Si era leccata, proprio come una gatta davanti a un pezzo di carne.
    “E io te l'arregalo. Mi chiange il core pirchì è un ricordo caro. Apparteneva a mia sorella Agatina che il Signiruzzo si chiamò”
    “E io lo voglio” fece la fìmmina con la boccuccia stretta, a culo di gaddrina.
    “Prima però facciamo un joco” disse il parrino, cominciando a mettere in posta l'idea che gli era venuta.
    “Quali joco? Non ho gana di giocare.”
    Patre Carnazza si susì, raprì una porticeddra, scomparse dintra la dispensa dove ci teneva la robba di mangiari e bìviri.
    “Lo sapi, parrì” fece Trisìna ad alta voce. “Una casa affittai, quella di Vigàta, quella quasi a ripa di mare.”
    “Ah,sì? E a chi?” spiò il parrino tornando nella càmmara e tenendo la mano dritta darrè la schina.
    “Il sinsale mi disse che serve a un forastèri, il novo ispettori capo ai molini. Travaglia ccà, a Montelusa. Io di pirsòna non lo canoscio.”
    Patre Carnazza, con un sorrisino, le mostrò quello che aveva pigliato dalla dispensa. Trisìna taliò, certamente erano frutti, ma non li aveva mai veduti prima.
    “Banane, si chiamano” spiegò il parrino. “Stanno in Africa. Me le portò aieri doppopranzo un amico mio che nàvica. Una me la mangiai. Una cosa di paradiso. E con queste due ci facciamo il joco che ti dissi.”
    S'assittò davanti alla fìmmina, sbucciò una banana.
    Appena ch'ebbe finito, Trisìna allungò la mano. Il parrino la scansò.
    “Ti civo io” disse “come si fa con i picciliddri.”
    Obbediente, Trisìna serrò gli occhi e raprì la voccuzza. Patre Carnazza le introdusse delicatamente tra le labbra la punta della banana che la fìmmina decapitò di netto. Il parrino sussultò. Trisìna mastichiò, agliuttì, raprì gli occhi.
    “Ancora”
    Finita la banana si mostrò delusa.
    “Chisto era il joco?”
    “No, ora lo facciamo” rispose il parrino pigliando la banana che aveva posata sul tavolo e principiando a sbucciarla “io ora mi suso e mi metto davanti a tia con la banana in mano. Tu te ne resti assittata con gli occhi serrati. Tu devi dare una volta un morso alla banana e un'altra volta invece una bella vasata. Se sbagli, se dai due vasate o due morsi di seguito, paghi pegno. E il pegno lo stabilisco io. Se c'inzerti, ti regalo il lume.”
    “E va bene” fece Trisìna, serrando gli occhi e inumidendosi le labbra con la lingua. Aveva capito benissimo il joco del parrino.
    A pensare ai denti che Trisìna aveva, patre Carnazza sudò freddo: se quella si sbagliava, sarebbe stato un guaio grosso.

    (A. Camilleri - La mossa del cavallo)

    Edited by Bluejam - 3/6/2007, 13:15
     
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101 replies since 20/11/2006, 09:47   1940 views
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