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    Per me, io sono colui che mi si crede

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    ancora un'altra novella di pirandello... grazie per avermi rovinato la vita gigi :)

    è tratta da "In silenzio" (ovviamente "Novelle per un anno")

    Una voce


    Pochi giorni prima che morisse, la marchesa Borghi aveva voluto consultare, più per scrupolo di coscienza che per altro, anche il dottor Giunio Falci, per il proprio figlio Silvio, cieco da circa un anno. Lo aveva fatto visitare dai più illustri oculisti d'Italia e dell'estero e tutti le avevano detto che era afflitto d'un glaucoma, irrimediabile.

    Il dottor Giunio Falci aveva vinto da poco, per concorso, il posto di direttore della clinica oftalmica; ma sia per la sua aria stanca e sempre astratta, sia per la figura sgraziata, per quel suo modo di camminare tutto rilassato e dinoccolato, con la grossa testa precocemente calva, buttata indietro, non riusciva a cattivarsi né la simpatia né la confidenza d'alcuno. Egli lo sapeva e pareva ne godesse. Rivolgeva agli scolari, ai clienti domande curiose, penetranti, che aggelavano e sconcertavano; e troppo chiaramente lasciava intendere il concetto che s'era formato della vita, così nudo di tutte quelle intime e quasi necessarie ipocrisie, di quelle spontanee, inevitabili illusioni che ciascuno, senza volerlo, si crea e si compone per un bisogno istintivo, quasi di pudor sociale, che la sua compagnia diveniva a lungo andare insopportabile.

    Invitato dalla marchesa Borghi, aveva esaminato a lungo, attentamente, gli occhi del giovine senza prestare ascolto, almeno in apparenza, a tutto ciò che la marchesa intanto gli diceva intorno alla malattia, ai giudizi degli altri medici, alle varie cure tentate. Glaucoma? No. Non aveva creduto di riscontrare in quegli occhi i segni caratteristici di questa malattia, il colore azzurrognolo o verdiccio della opacità, ecc. ecc.; gli era parso piuttosto che si trattasse dl una rara e strana manifestazione di quel male che comunemente suol chiamarsi cateratta. Ma non aveva voluto manifestare così in prima alla madre il suo dubbio, per non farle nascere di improvviso foss'anche una tenue speranza. Dissimulando il vivissimo interesse che quel caso strano gli destava, le aveva invece manifestato il desiderio di tornare a visitar l'infermo fra qualche mese.

    Era infatti ritornato; ma, insolitamente, per quella via nuova, sempre deserta, in fondo ai Prati di Castello dove sorgeva il villino della marchesa Borghi, aveva trovato una frotta di curiosi davanti al cancello aperto. La marchesa Borghi era morta d'improvviso, durante la notte.

    Che fare? Tornarsene indietro? Aveva pensato che, se nella prima visita avesse manifestato il dubbio che il male di quel giovane non fosse, a suo modo di vedere, un vero e proprio glaucoma, forse quella povera madre non sarebbe morta con la disperazione di lasciare il figlio irrimediabilmente cieco. Ebbene, se non gli era più dato di consolare con questa speranza la madre, non avrebbe potuto almeno cercare con essa un gran conforto al povero superstite, così tremendamente colpito da quella nuova, improvvisa sciagura?

    Ed era salito al villino.

    Dopo una lunga attesa, fra il trambusto che vi regnava, gli si era presentata una giovine vestita di nero, bionda, dall'aria rigida, anzi severa: la dama di compagnia della defunta marchesa. Il dottor Falci le aveva esposto il perché di quella visita, che sarebbe stata altrimenti importuna. A un certo punto, con una lieve meraviglia che tradiva la diffidenza, quella gli aveva domandato:

    - Ma vanno dunque soggetti anche i giovani alla cateratta?

    Il Falci l'aveva guardata un tratto negli occhi, poi, con un sorriso ironico, percettibile più nello sguardo che sulle labbra, le aveva risposto:

    - E perché no? Moralmente, sempre, signorina: quando s'innamorano. Ma anche fisicamente, pur troppo.

    La signorina, irrigidendosi di più, aveva allora troncato il discorso, dicendo che, nelle condizioni in cui il marchese si trovava in quel momento, non era proprio possibile parlargli di nulla; ma che, quando si fosse un po' quietato, ella gli avrebbe detto di quella visita e certo egli lo avrebbe fatto chiamare.

    Erano trascorsi più di tre mesi: il dottor Giunio Falci non era stato richiamato.



    Veramente, la prima visita aveva lasciato alla marchesa defunta una pessima impressione del dottore. La signorina Lydia Venturi, rimasta come governante e lettrice del giovane marchese, lo ricordava bene. Per istintivo malanimo contro quell'antipaticissimo dottore non considerava, intanto, se per avventura non sarebbe stata diversa quella impressione della marchesa, ove il Falci fin da principio le avesse fatto sperare non improbabile la guarigione del figlio. Per conto suo, stimò da ciarlatano e peggio la seconda visita, quel venire proprio nel giorno che la marchesa era morta a manifestare un dubbio, ad accendere una speranza di quella sorta. Tanto più che il giovane marchese pareva ormai rassegnato alla sciagura. Mortagli così d'un tratto la madre, oltre al bujo della sua cecità, un altro bujo s'era sentito addensare più dentro che attorno, terribile, di fronte al quale, è vero, tutti gli uomini sono ciechi. Ma da questo bujo, chi abbia gli occhi sani può almeno distrarsi con la vista delle cose intorno: egli no: cieco per la vita, cieco ora anche per la morte. E in quest'altro bujo più freddo e più tenebroso, sua madre era scomparsa, silenziosamente, lasciandolo solo, in un vuoto orrendo.

    A un tratto - non sapeva bene da chi - una voce d'una dolcezza infinita era venuta a lui, come una luce soavissima. E a questa voce tutta l'anima sua, sperduta in quel vuoto orrendo, s'era aggrappata.

    Non era altro che una voce per lui la signorina Lydia. Ma era pur colei che più di tutti, negli ultimi mesi, era stata vicina a sua madre. E sua madre - egli lo ricordava - parlandogli di lei, gli aveva detto ch'era buona e attenta, di squisite maniere, colta, intelligente; e tale egli ora la sperimentava nelle cure che aveva per lui, nei conforti che gli dava.

    Lydia, fin dai primi giorni, aveva sospettato che la marchesa Borghi, prendendola al suo servizio, non avrebbe veduto male, nel suo egoismo materno, che il figlio infelice si fosse in qualche modo consolato con lei: se n'era acerbamente offesa e aveva costretto la sua naturale dolcezza a irrigidirsi in un contegno addirittura severo. Ma dopo la sciagura, quand'egli, tra il pianto disperato, le aveva preso una mano e vi aveva appoggiato il bel volto pallido, gemendo: «Non mi lasci!... non mi lasci!», s'era sentita vincere dalla compassione, dalla tenerezza, e s'era dedicata a lui, senza più sospetto.

    Presto, con la timida ma ostinata e accorante curiosità dei ciechi, egli s'era messo a torturarla. Voleva «vederla» nel suo bujo; voleva che la voce di lei diventasse immagine dentro di sé.

    Furono dapprima domande vaghe, brevi. Egli volle dirle come se la immaginava, sentendola leggere o parlare.

    - Bionda, è vero?

    - Sì.

    Bionda era; ma i capelli, alquanto ruvidi e non molti contrastavano stranamente col colore un po' torbido della pelle. Come dirglielo? E perché?

    - E gli occhi, ceruli?

    - Sì.

    Ceruli; ma cupi, dolenti, troppo affossati sotto la fronte grave, triste, prominente. Come dirglielo? E perché?

    Bella non era, di volto; ma di corpo elegantissima. Belle veramente belle, aveva le mani e la voce. La voce, segnatamente. D'una ineffabile soavità, in contrasto con l'aria cupa altera e dolente del volto.

    Ella sapeva com'egli, per la malìa di questa voce e attraverso alle timide risposte che riceveva alle sue domande insistenti, la vedeva; e si sforzava davanti allo specchio di somigliare a quell'immagine fittizia di lei, si sforzava di vedersi com'egli nel suo bujo la vedeva. E la sua voce, ormai, per lei stessa non usciva più dalle sue proprie labbra, ma da quelle ch'egli le immaginava; e, se rideva, aveva subito l'impressione di non aver riso lei, ma di aver piuttosto imitato un sorriso non suo, il sorriso di quell'altra sé stessa che viveva in lui.

    Tutto ciò le cagionava come un sordo tormento, la sconvolgeva: le pareva di non esser più lei, di mancare man mano a sé medesima, per la pietà che quel giovane le ispirava. Pietà soltanto? No: era anche amore, adesso. Non sapeva più ritrarre la mano dalla mano di lui, scostare il volto dal volto di lui, se egli la attirava troppo a sé.

    - No: così, no... così, no...

    Si dové presto, ormai, venire a una deliberazione, che alla signorina Lydia costò una lunga lotta con sé stessa Il giovane marchese non aveva parenti, era padrone di sé e dunque di fare quel che gli pareva e piaceva. Ma non avrebbe detto la gente che ella approfittava della sciagura di lui per farsi sposare, per diventar marchesa e ricca? Oh sì, certamente, questo e altro avrebbe detto. Ma tuttavia, come rimanere più oltre in quella casa, se non a questo patto? E non sarebbe stata una crudeltà abbandonare quel cieco, privarlo delle sue cure amorose, per paura dell'altrui malignità? Era, senza dubbio, per lei una gran fortuna; ma sentiva, in coscienza, di meritarsela perché ella lo amava; anzi, per lei la maggior fortuna era questa, di poterlo amare apertamente, di potersi dir sua, tutta e per sempre, di potersi consacrare a lui unicamente, anima e corpo. Egli non si vedeva: non vedeva altro entro di sé che la propria infelicità; ma era pur bello, tanto! e delicato come una fanciulla; e lei, guardandolo, beandosene, senza che egli se n'accorgesse, poteva pensare: «Ecco, sei tutto mio, perché non ti vedi e non ti sai; perché l'anima tua è come prigioniera della tua sventura e ha bisogno di me per vedere, per sentire». Ma non bisognava prima, condiscendendo alla voglia di lui, confessargli ch'ella non era com'egli se la immaginava? Non sarebbe stato il tacere un inganno da parte sua? Sì, un inganno. Ma egli era pur cieco, e per lui, dunque poteva bastare un cuore, come quello di lei, devoto e ardente, e l'illusione della bellezza. Brutta, del resto, non era. E poi una bella, veramente bella forse, chi sa! avrebbe potuto ingannarlo ben altrimenti approfittando della sciagura di lui, se veramente egli, più che d'un bel volto che non avrebbe mai potuto vedere aveva bisogno d'un cuore innamorato.



    Dopo alcuni giorni di angosciosa perplessità, le nozze furono stabilite. Si sarebbero fatte senz'alcuna pompa, presto, appena spirato il sesto mese di lutto per la madre.

    Ella aveva dunque davanti a sé circa un mese e mezzo di tempo per preparar l'occorrente alla meglio. Furono giorni d'intensa felicità: le ore volavano fra le lietissime, affrettate cure del nido e le carezze, da cui ella si scioglieva un po' ebbra, con dolce violenza, per salvare da quella libertà che la convivenza dava al loro amore, qualche gioia, la più forte, per il giorno delle nozze.

    Ci mancava ormai poco più d'una settimana, quando a Lydia fu annunziata improvvisamente una visita del dottor Giunio Falci.

    Di primo impeto, fu per rispondere:

    - Non sono in casa!

    Ma il cieco, che aveva udito parlar sottovoce, domandò:

    - Chi è?

    - Il dottor Falci, - ripeté il servo.

    - Sai? - disse Lydia, - quel medico che la tua povera mamma fece chiamare pochi giorni prima della disgrazia.

    - Ah, sì! - esclamò il Borghi, sovvenendosi. - Mi osservò a lungo... a lungo, ricordo bene, e disse che voleva ritornare per...

    - Aspetta, - lo interruppe subito Lydia, agitatissima. - Vado a sentire.

    Il dottor Giunio Falci stava in piedi in mezzo al salotto, con la grossa testa calva rovesciata indietro, gli occhi socchiusi, e si stirava distrattamente con una mano la barbetta ispida sul mento.

    - S'accomodi, dottore, - disse la signorina Lydia, entrata senza ch'egli se n'accorgesse.

    Il Falci si scosse, s'inchinò e prese a dire:

    - Mi scuserà, se...

    Ma ella turbata, eccitata, volle premettere:

    - Lei finora veramente non era stato chiamato, perché...

    - Anche quest'altra mia visita è forse inopportuna, - disse il Falci, col lieve sorriso sarcastico su le labbra. - Ma lei mi perdonerà, signorina.

    - No... perché? anzi... - fece Lydia arrossendo.

    - Lei non sa, - rispose il Falci, - l'interesse che a un pover'uomo che si occupa di scienza possono destare certi casi di malattia... Ma io voglio dirle la verità, signorina: mi ero dimenticato di questo caso, quantunque a parer mio molto raro e strano. Ieri, però, chiacchierando del più e del meno con alcuni amici, ho saputo del prossimo matrimonio del marchese Borghi con lei, signorina; è vero?

    Lydia impallidì e affermò, alteramente, col capo.

    - Permetta ch'io me ne congratuli, - soggiunse il Falci. - Ma guardi, allora, tutt'a un tratto, mi sono ricordato. Mi sono ricordato della diagnosi di glaucoma fatta da tanti illustri miei colleghi, se non m'inganno. Diagnosi spiegabilissima, in principio, non creda. Io sono sicuro, in fatti, che se la signora marchesa avesse fatto visitare il figliuolo da questi miei colleghi nel tempo che lo visitai io, anch'essi avrebbero detto facilmente che di glaucoma vero e proprio non era più il caso di parlare. Basta. Mi sono ricordato anche della mia seconda visita disgraziatissima e ho pensato che lei, signorina, dapprima nello scompiglio cagionato dall'improvvisa morte della marchesa, poi nella gioja di questo avvenimento, si era di certo dimenticata, è vero? dimenticata...

    - No! - negò con durezza Lydia a questo punto, ribellandosi alla tortura che il lungo discorso avvelenato del dottore le infliggeva.

    - Ah, no? - fece il Falci.

    - No, - ripeté ella con accigliata fermezza. - Io ho ricordato piuttosto la poca, per non dir nessuna fiducia, scusi, che ebbe la marchesa, anche dopo la sua visita, su la guarigione del figlio.

    - Ma io non dissi alla marchesa, - ribatté pronto il Falci, - che la malattia del figlio, a mio modo di vedere...

    - È vero, lei lo disse a me, - troncò Lydia di nuovo. - Ma anch'io, come la marchesa...

    - Poca, anzi, nessuna fiducia, è vero? Non importa, - interruppe a sua volta il Falci. - Ma lei non riferì intanto, al signor marchese la mia venuta e la ragione...

    - Sul momento, no.

    - E poi?

    - Neppure. Perché...

    Il dottor Falci alzò una mano:

    - Comprendo. Nato l'amore... Ma lei, signorina, mi perdoni. Si dice, è vero, che l'amore è cieco; lei però lo desidera cieco proprio fino a questo punto, l'amore del signor marchese? Cieco anche materialmente?

    Lydia sentì che contro la sicura freddezza mordace di quell'uomo non bastava il contegno altero, in cui man mano, per difendere la sua dignità da un sospetto odioso, s'interiva vieppiù. Tuttavia si sforzò di contenersi ancora e domandò con apparente calma:

    - Lei insiste nel ritener che il marchese possa, con l'ajuto di lei, riacquistare la vista?

    - Piano, signorina, - rispose il Falci, alzando un'altra volta la mano. - Non sono, come il Signor Iddio, onnipossente. Ho esaminato una volta sola gli occhi del signor marchese, e m'è parso di dovere escludere assolutamente che si tratti di glaucoma. Ecco: questo, che può essere un dubbio, che può essere una speranza, mi pare che dovrebbe bastarle, se veramente, com'io credo, le sta a cuore il bene del suo fidanzato.

    - E se il dubbio, - s'affrettò a replicare Lydia, con aria di sfida, - dopo la sua visita non potesse più sussistere se la speranza restasse delusa? Non avrà lei inutilmente crudelmente, ora, turbata un'anima che si è già rassegnata

    - No, signorina - rispose con dura e seria calma i Falci. - Tanto vero, ch'io ho stimato mio dovere, di me dico, venire senza invito. Perché qua, lo sappia, io credo di trovarmi non solo di fronte a un caso di malattia, ma anche di fronte a un caso di coscienza, più grave.

    - Lei sospetta... - si provò a interromperlo Lydia; ma il Falci non le diede tempo di proseguire.

    - Lei stessa, - seguitò - ha detto or ora di aver taciuto al marchese la mia venuta, con una scusa ch'io non posso accettare, non perché m'offenda, ma perché la fiducia o la sfiducia verso me non doveva esser sua, se mai, ma del marchese. Guardi, signorina: sarà anche puntiglio da parte mia, non nego; le dico anzi che io non prenderò nulla dal marchese, se egli verrà nella mia clinica, dove avrà tutte le cure e l'ajuto che la scienza può prestargli, di dinteressatamente. Dopo questa dichiarazione, sarà troppo chiederle che ella annunzii al signor marchese la mia visita

    Lydia si levò in piedi.

    - Aspetti, - disse allora il Falci, levandosi anche lui e riprendendo la sua aria consueta. - La avverto ch'io non dirò affatto al marchese d'essere venuto quella volta. Dirò anzi, se vuole, che lei, premurosamente, mi ha fatto chiamare, prima delle nozze.

    Lydia lo guardò fieramente negli occhi.

    - Lei dirà la verità. Anzi, la dirò io.

    - Di non aver creduto in me?

    - Precisamente.

    Il Falci si strinse nelle spalle, sorrise.

    - Potrebbe nuocerle. E io non vorrei. Se lei anzi volesse rimandar la visita a dopo le nozze, guardi, io sarei anche disposto a ritornare.

    - No, - fece, più col gesto che con la voce, Lydia soffocata dall'orgasmo, avvampata in volto dall'onta che quell'apparente generosità del medico le cagionava; e con la mano gli fe' cenno di passare.

    Silvio Borghi attendeva impaziente nella sua camera.

    - Ecco qua il dottor Falci, Silvio - disse Lydia entrando convulsa. - Abbiamo chiarito di là un equivoco. Tu ricordi che il dottore, nella sua prima visita, disse che voleva ritornare, è vero?

    - Sì, - rispose il Borghi. - Ricordo benissimo, dottore!

    - Non sai ancora, - riprese Lydia, - ch'egli difatti ritornò, la stessa mattina che avvenne la disgrazia di tua madre. E parlò con me e mi disse di ritenere che il tuo male non fosse propriamente quello che tanti altri medici avevano dichiarato; e non improbabile perciò, secondo lui la tua guarigione. Io non te ne dissi nulla.

    - Perché la signorina, badi, - s'affrettò a soggiungere il dottor Falci, - trattandosi d'un dubbio espresso da me in quel momento, in termini molto vaghi, lo considerò piuttosto come un conforto ch'io volessi apprestare, e non vi diede molto peso.

    - Questo è ciò che ho detto io, non quel che pensa lei, - rispose Lydia, pronta e fiera. - Il dottor Falci, Silvio ha sospettato ciò che, del resto, è vero, ch'io cioè non ti dissi nulla della sua seconda visita; ed è voluto venir lui spontaneamente, prima delle nozze, per prestarti le sue cure, senz'alcun compenso. Ora puoi credere con lui, Silvio, ch'io volessi lasciarti cieco, per farmi sposare da te.

    - Che dici, Lydia? - scattò il cieco.

    - Ma sì, - riprese ella subito, con uno strano riso. - E può esser vero anche questo, perché, difatti, a questo solo patto io potrei diventare la tua...

    - Che dici? - ripeté il Borghi, interrompendola.

    - Te ne accorgerai, Silvio, se il dottor Falci riuscirà a ridarti la vista. Io vi lascio.

    - Lydia! Lydia! - chiamò il Borghi.

    Ma ella era già uscita, tirando l'uscio a sé con violenza.

    Andò a buttarsi sul letto, morse rabbiosamente il guanciale e ruppe dapprima in singhiozzi irrefrenabili. Ceduta la prima furia del pianto, rimase attonita e come raccapricciata di fronte alla propria coscienza. Le parve che tutto ciò che il medico le aveva detto, con quel suo fare freddo e mordace, da molto tempo lei lo avesse detto a sé stessa, o meglio, che qualcuno in lei lo avesse detto; e lei aveva finto di non udire. Sì, sempre, sempre si era ricordata del dottor Falci, e ogni qual volta l'immagine di lui le si era affacciata alla mente, come il fantasma d'un rimorso, ella l'aveva respinta con una ingiuria: «Ciarlatano!». Perché - come negarlo più, ormai? - ella voleva, voleva proprio che il suo Silvio rimanesse cieco La cecità di lui era la condizione imprescindibile del suo amore. Che se egli, domani, avesse riacquistato la vista, bello com'era, giovane, ricco, signore, perché avrebbe sposato lei? Per gratitudine? Per pietà? Ah, non per altro! E dunque, no, no! Seppure egli avesse voluto; lei, no; come avrebbe potuto accettare, lei che lo amava e non lo voleva per altro? lei, che nella sventura di lui vedeva la ragione del suo amore e quasi la scusa, di fronte alla malignità altrui? E si può dunque transigere così, inavvertitamente, con la propria coscienza, fino a commettere un delitto? fino a fondar la propria felicità su la sciagura di un altro? Ella, sì, veramente, non aveva allora creduto che colui, quel suo nemico, potesse fare il miracolo di ridar la vista al suo Silvio; non lo credeva neanche adesso; ma perché aveva taciuto? proprio perché non aveva creduto di prestar fiducia a quel medico; o non piuttosto perché il dubbio che il medico aveva espresso e che sarebbe stato per Silvio come una luce di speranza, sarebbe stato invece per lei la morte, la morte del suo amore, se poi si fosse affermato? Per ora ella poteva credere che il suo amore sarebbe bastato a compensar quel cieco della vista perduta; credere che, se pure egli, per un miracolo, avesse ora riacquistato la vista, né questo bene sommo, né tutti i piaceri che avrebbe potuto pagarsi con la sua ricchezza, né l'amore d'alcun'altra donna, avrebbero potuto compensarlo della perdita dell'amore di lei. Ma queste erano ragioni per sé, non per lui. Se ella fosse andata a dirgli: «Silvio, tu devi scegliere fra il bene della vista e il mio amore», «E perché tu vuoi lasciarmi cieco?», avrebbe egli certamente risposto. Ma perché così soltanto, cioè a patto della sciagura di lui, era possibile la sua felicità.

    Si levò in piedi improvvisamente, come per un subita richiamo. Durava ancora la visita, di là? Che diceva il medico? Che pensava egli? Ebbe la tentazione di andare in punta di piedi a origliare dietro quell'uscio ch'ella stessa aveva chiuso; ma si trattenne. Ecco: dietro l'uscio era rimasta. Lei stessa, con le sue mani, se l'era chiuso, per sempre. Ma poteva forse accettare le velenose profferte di colui? Era arrivato finanche a proporle di rimandare la visita a dopo le nozze. - Se ella avesse accettato... - No! No! Si strinse tutta in sé, dal ribrezzo, dalla nausea. Che mercato infame sarebbe stato! il più laido degli inganni! E poi? Disprezzo, e non più amore...

    Sentì schiudere l'uscio; ebbe un sussulto; corse istintivamente al corridojo per cui il Falci doveva passare.

    - Ho rimediato, signorina, alla sua soverchia franchezza, - diss'egli freddamente. - Io mi sono raffermato nella mia diagnosi. Il marchese verrà domattina nella mia clinica. Vada, vada intanto da lui che la aspetta. A rivederla.

    Come annientata, vuota, lo seguì con gli occhi fino all'uscio, in fondo al corridojo; poi udì la voce di Silvio che la chiamava, di là: si sentì tutta rimescolare, ebbe come una vertigine; fu per cadere; si recò le mani al volto, per frenar le lagrime; accorse.

    Egli la attendeva, seduto, con le braccia aperte; la strinse, forte, forte a sé, gridando la sua felicità e che per lei soltanto voleva riacquistar la vista, per vedere la sua cara, la sua bella, la sua dolce sposa.

    - Piangi? Perché? Ma piango anch'io, vedi? Ah che gioja! Ti vedrò... ti vedrò! Io vedrò!

    Era ogni parola per lei una morte; tanto che egli, pur nella gioia, intese che il pianto di lei non era come il suo e prese allora a dirle che certo, oh! ma certo neanche lui in un giorno come quello, avrebbe creduto alle parole dei medico, e dunque, via, basta ora! Che andava più pensando? Era giorno di festa, quello! Via tutte le afflizioni! via tutti i pensieri, tranne uno, questo: che la sua felicità sarebbe stata intera, ormai, perché egli avrebbe veduto la sua sposa. Ora ella avrebbe avuto più agio, più tempo di preparare il nido; e doveva esser bello, come un sogno, questo nido, ch'egli avrebbe veduto per prima cosa. Sì, prometteva che sarebbe uscito con gli occhi bendati dalla clinica, e che li avrebbe aperti lì, per la prima volta, lì, nel suo nido.

    - Parlami! Parlami! Non lasciar parlare me solo!

    - Ti stanchi?

    - No... Chiedimi di nuovo: «Ti stanchi?» con questa tua voce. Lasciamela baciare, qui, su le tue labbra, questa tua voce...

    - Sì...

    - E parla, ora; dimmi come me lo prepari il nido.

    - Come?

    - Sì, io non t'ho domandato nulla, finora. Ma no, no voglio sapere nulla, neanche adesso. Farai tu. Sarà per me uno stupore, un incanto... Ma io non vedrò nulla, dapprima te sola!

    Ella, risolutamente, soffocò il pianto disperato, s'ilarò tutta in volto, e lì, inginocchiata innanzi a lui, con lui curvo su lei, abbracciato, cominciò a parlargli del suo amore quasi all'orecchio, con quella sua voce più che mai dolce e maliosa. Ma quand'egli, ebbro, la strinse e minacciò di non lasciarla più, in quel momento, ella si sciolse, si rizzò, fiera come d'una vittoria di fronte a sé stessa. Ecco: avrebbe potuto, anche ora, legarlo a sé indissolubilmente. Ma no. Perché ella lo amava.

    Tutto quel giorno, fino a tarda notte, lo inebriò della sua voce, sicura, perché egli era ancora nel bujo, là, suo nel bujo, in cui già fiammeggiava la speranza, bella come l'immagine ch'egli s'era finto di lei.

    La mattina seguente volle accompagnarlo in vettura fino alla clinica e, nel lasciarlo, gli disse che si sarebbe messa subito subito all'opera, come una rondine frettolosa.

    - Vedrai!

    Attese due giorni, in un'ansia terribile, l'esito dell'operazione. Quando lo seppe felice, attese ancora un po', nella casa vuota; gliela preparò amorosamente, mandando a dire a lui che, esultante, la voleva lì, anche per un minuto che avesse pazienza ancora per qualche giorno; non accorreva per non agitarlo; il medico non permetteva...

    - Sì? - Ebbene, allora sarebbe venuta...
    Raccolse le sue robe, e il giorno prima che egli lasciasse la casa di salute, se ne partì ignorata, per rimanere almeno nella memoria di lui una voce, ch'egli forse, uscito ora da suo bujo, avrebbe cercata su molte labbra, invano.
     
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  2. daniela_dm27
     
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    "e chi l'avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano, accarezzando le gambe di una ragazza si possa correre così veloci e fuggire"
    ""non si è mai lontani abbastanza per trovarsi"
    "sono i desideri che salvano, sono l'unica cosa vera"
    ancora A.Baricco e ancora Oceano Mare
     
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  3. daniela_dm27
     
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    ma che dire gi gabriel garcia marquez ne "l'amore ai tempi del colera"??

    "avevano visssuto insieme quanto bastava per accorgersi che l'amore era l'amore in qualsiasi tempo e in qualsiasi parte, ma tanto più denso quanto più era vicino alla morte"


    "...scoprì quella somiglianza molti anni dopo, mentre si pettinava davanti allo specchio, e solo allora capì che un uomo sa quando comincia a invecchiare perchè comincia ad assomigliare a suo padre"


    "...nessuno fu diverso da come lei volle che fosse, così come le accadeva con le città, che non le sembravano nè migliori nè peggiori, ma come lei le aveva costruite nel suo cuore. Parigi, malgrado la sua pioggia perenne, i suoi bottegai sordidi e la grossolanità omerica dei suoi cocchieri, l'avrebbe sempre ricordata come la città più bella del mondo, non perchè lo fosse o non lo fosse davvero, ma perchè era rimasta legata alla nostalgia dei suoi anni più felici."


    "...con lei aveva imparato quello che aveva già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone al contempo, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna."


    "...si morse di nuovo la lingua affinchè non gli uscisse la verità dalle tante fessure che aveva nel cuore"
    "..ma la rabbia tornava sempre, e ben presto si rese conto che la voglia di dimenticarlo era lo stimolo più forte per ricordarlo.."

    "allora ignorava come lei frapponesse sempre una barriera di rabbia affinchè non si notasse la sua paura. e in quel caso, il più terribile di tutti, era la paura di rimanere senza di lui.."

     
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    CITAZIONE (daniela_dm27 @ 28/6/2007, 21:08)
    "...scoprì quella somiglianza molti anni dopo, mentre si pettinava davanti allo specchio, e solo allora capì che un uomo sa quando comincia a invecchiare perchè comincia ad assomigliare a suo padre"

    nn so perché ma la ritengo la + poetica di tutte le citazioni ke hai postato... :)
     
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  5. daniela_dm27
     
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    infatti....è stupenda...
     
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  6. delfinoutopista
     
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    "Val mica la pena agitarsi, aspettare basta, dal momento che tutto deve finire per passarci, nella strada.Quella sola conta in fondo.Niente da dire.Ci aspetta. Bisognerà pur scenderci nella strada, decidersi, non uno, non due, non tre di noi, ma tutti.Stiamo lì davanti a far cerimonie e complimenti, ma capiterà.
    Nelle case, niente di buono. Quando una porta si chiude dietro un uomo, lui comincia subito a puzzare e tutto quel che si porta dietro puzza anche. Passa di moda sul posto, corpo e anima. Marcisce. Se puzzano gli uomini, c'entriamo pure qualcosa. Bisognava occuparsene! Bisognava farli uscire, espellerli, esporli. Tutte le faccende che puzzano stanno in camera a infiocchettarsi e puzzano lo stesso.
    Parlando di famiglie, conosco per esempio un farmacista, avenue de Saint- Ouen, che ha un bel manifesto in vetrina, una bella reclame: Tre franchi la scatola per purgare tutta la famiglia! Un affare! Giù rutti! Si fa tutto insieme, in famiglia. Ci si odia a morte, è il vero focolare, ma nessuno protesta, perchè è comunque meno caro che andare a vivere in albergo.
    L'hotel, diciamolo, è più inquietante, non è pretenzioso come un appartamento, ci si sente meno colpevoli. La razza umana sta mai tranquilla e per arrivare al giudizio universale che si terrà per strada, chiaro che in hotel uno è più vicino. Possono venire gli angeli con le trombe, arriveremo primi noi, scesi dall'hotel."

    Da "Viaggio al termine della notte" di Louis Ferdinand CELINE.
    Ogni medico dovrebbe leggere questo gran medico di Celine. Come disse Daudet: "Solo un medico poteva essere capace di evocare a quel modo la miseria".
    Leggete questo libro, ve lo consiglio di cuore.
     
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    ed ecco un'altra novella di pirandello (ne dubitavate? :P ), tratta da la giara


    La cattura

    Il Guarnotta seguiva col corpo ciondolante l'andatura dell'asinello, come se camminasse anche lui; e per poco veramente le gambe, coi piedi fuori delle staffe, non gli strisciavano sulla polvere dello stradone.
    Ritornava, come tutti i giorni a quell'ora, dal suo podere quasi affacciato sul mare, all'orlo dell'altipiano. Più stanca e più triste di lui, la vecchia asinella s'affannava da un pezzo a superare le ultime pettate di quello stradone interminabile, tutto a volte e risvolte, attorno al colle, in cima al quale pareva s'addossassero fitte, una sull'altra, le decrepite case della cittaduzza.
    A quell'ora i contadini erano ritornati tutti dalla campagna; lo stradone era deserto. Se qualcuno ancora se ne incontrava, il Guarnotta era sicuro di riceverne il saluto. Perché tutti, grazie a Dio, lo rispettavano.
    Deserto ormai come quello stradone era ai suoi occhi tutto il mondo; e di cenere come quell'aria della prima sera, la sua vita. I rami degli alberi sporgenti senza foglie dai muretti di cinta screpolati, le alte siepi di fichi d'India polverose e, qua e là, i mucchi di brecciale che nessuno pensava di stendere su quello stradone tutto solchi e fosse, se il Guarnotta li guardava, in quella loro immobilità e in quel silenzio e in quell'abbandono, gli parevano oppressi come lui da una vana pena infinita. E a crescere questo senso di vanità, come se il silenzio si fosse fatto polvere, non si sentiva neanche il rumore dei quattro zoccoli dell'asinella.
    Quanta di quella polvere dello stradone non si portava a casa ogni sera il Guarnotta! La moglie, tenendo la giacca sospesa e discosta, appena egli se la levava, la mostrava in giro alle seggiole, all'armadio, al letto, al cassettone, come per darsi uno sfogo:
    - Guardate, guardate qua! Ci si può scrivere sopra, col dito.
    Si fosse lasciato persuadere almeno a non portare l'abito nero, di panno, per la campagna! Gliene aveva ordinati tre - apposta, - tre - di fustagno.
    In maniche di camicia, il Guarnotta, quelle tre dita tozze che la moglie veniva a cacciargli, nel gesto rabbioso, quasi negli occhi, gliele avrebbe volentieri addentate. Cane pacifico, si contentava di lanciarle di traverso un'occhiataccia e la lasciava cantare. Quindici anni addietro, alla morte dell'unico figlio, aveva giurato d'andar vestito sempre di nero. Dunque...
    - Ma anche per la campagna? Ti faccio mettere il lutto al braccio negli abiti di fustagno. E basterebbe la cravatta nera, ormai, dopo quindici anni!
    La lasciava cantare. Non se ne stava forse tutto il santo giorno in quel suo podere al mare? In paese, non si faceva più vedere da nessuno, da anni. - Dunque...
    - Che dunque?
    Ma dunque, se non lo portava in campagna, dove lo avrebbe portato il lutto per il figliuolo? - Corpo di Dio, riflettere un poco almeno, prima d'aprir bocca e lasciare andare. - Nel cuore, sì: grazie tante! E che non lo portava nel cuore? Ma voleva si vedesse anche fuori... - Che lo vedessero gli alberi, già! o gli uccellini dell'aria; perché, infatti, occhi per vederselo addosso, lui, non ne aveva. E perché poi brontolava tanto la moglie? Doveva forse batterlo e spazzolarlo lei, quell'abito, ogni sera? C'erano le serve. Tre, per due persone sole. Economia? Un abito nero all'anno: ottanta, novanta lire. Eh via! Avrebbe dovuto capire, che non le conveniva far tanti discorsi. Seconda moglie! E il figlio morto era del primo letto! Senz'altri parenti, neppur lontani, alla sua morte, tutto il suo (che non era poco) sarebbe andato a lei e ai suoi nipoti. Zitta, dunque: almeno per prudenza... Ma già, sì! se avesse capito questo, non sarebbe stata quella buona donna che era...
    Ed ecco perché lui se ne stava tutto il giorno in campagna. Solo, tra gli alberi e con la distesa sterminata del mare sotto gli occhi, come da un'infinita lontananza, nel fruscio lungo e lieve di quegli alberi, nel borboglio cupo e lento di quel mare s'era abituato a sentire la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita.

    Era giunto ormai a meno d'un chilometro dal paese. Dalla chiesetta dell'Addolorata su in cima gli arrivavano lenti e blandi i rintocchi dell'Avemaria, allorché, d'improvviso, a una brusca svoltata dello stradone:
    - Faccia a terra!
    E dall'ombra si vide saltare addosso tre appostati, con la faccia bendata, armati di fucile. Uno abbrancò l'asina per la cavezza; gli altri due, in un batter d'occhio, lo strapparono di sella, giù a terra; e mentre uno con un ginocchio su le gambe gli legava i polsi, l'altro gli annodava dietro la nuca un fazzoletto ripiegato a fascia, passato sopra gli occhi.
    Ebbe appena il tempo di dire:
    - Figliuoli, a me?
    Fu tirato su, spinto, strappato, trascinato di furia per le braccia, fuori dello stradone, giù per la costa petrosa, verso la vallata.
    - Figliuoli...
    - Zitto, o sei morto!
    Più delle spinte e degli strappi, l'ansito, l'ansito di quei tre per la violenza che commettevano, gl'incuteva terrore. Per avere quell'ansito di belve, doveva esser tremendo ciò che s'erano proposto di fare sopra di lui.
    Ma ucciderlo, almeno subito, forse non volevano. Se per mandato o per vendetta, lo avrebbero ucciso là, su lo stradone, dall'ombra dove si tenevano appostati. Dunque, lo catturavano, per ricatto.
    - Figliuoli...
    Stringendogli più forte le braccia e scrollandolo, gl'intimarono di nuovo di tacere.
    - Ma almeno allentatemi un po' la benda! Mi serra troppo gli occhi... non posso...
    - Cammina!
    Prima giù, poi su, e avanti, e indietro; poi giù di nuovo, e poi di nuovo su e su e su. Dove lo trascinavano?
    Nel subbuglio di pensieri e di sentimenti, tra il guizzare d'immagini sinistre e l'affanno di quella corsa cieca, a sbalzi, a spintoni, tra sassi, sterpi (che stranezza!) i lumi, i primi lumi accesi nella cittaduzza ancora illuminata a petrolio, su in cima al colle - lumi delle case, lumi delle strade - come li aveva intraveduti prima che lo assaltassero e come tante volte, ritornando dal podere sempre a quell'ora li aveva intraveduti, ecco, nella strettura di quella benda che gli schiacciava gli occhi, gli apparivano (che stranezza!) precisi, proprio come se li avesse davanti e avesse gli occhi liberi. Andava, così trascinato, strappato, incespicando, con tanto terrore dentro, e se li portava, quei lumetti placidi e tristi, davanti, con sé, con tutto il colle, con tutta la cittaduzza situata lassù, dove nessuno sapeva la violenza che in quel momento si faceva a lui, e tutti attendevano quieti e sicuri ai loro casi consueti.
    A un certo punto avvertì anche l'affrettato zoccolare della sua asinella.
    - Ah!
    Trascinavano via anche la sua vecchia asinella stanca. Ma che ne capiva, povera bestiola? Avvertiva forse una furia insolita, un'insolita violenza, ma andava dove la portavano, senza capir nulla. Se si fossero fermati un momento, se l'avessero lasciato parlare, avrebbe detto loro con calma, ch'era pronto a dare tutto quello che volevano. Poco più gli restava da vivere, e non valeva proprio la pena per un po' di danaro - di quel danaro che non gli dava più nessuna gioja - passare un momento come quello.
    - Figliuoli...
    - Zitto, cammina!
    - Ma non ne posso più! Perché mi fate questo? Sono pronto...
    - Zitto! Parleremo poi... Cammina!
    Lo fecero camminare, così, un'eternità. A un certo punto, fu tanta la stanchezza, tanto lo stordimento di quel fazzoletto che gli serrava la testa, che si sentì mancare e non comprese più nulla.

    Si ritrovò, la mattina appresso, in una grotta bassa, come disfatto in un tanfo di mucido che pareva spirasse dallo stesso squallore della prima luce del giorno.
    S'insinuava livida, quella luce, appena appena, di tra gli anfratti cretosi della grotta e gli alleviava l'incubo delle violenze sofferte, che ora gli apparivano come sognate: violenze cieche, da bruti, al suo corpo che non si reggeva più, caricato su le spalle ora dell'uno ora dell'altro, buttato a terra e trascinato o sollevato per le mani e per i piedi.
    Dov'era adesso?
    Tese l'orecchio. Gli parve che fosse fuori un silenzio d'altura. E per un momento vi si sentì come sospeso. Ma non poteva muoversi. Giaceva per terra come una bestia morta, mani e piedi legati. E le membra gli pesavano quasi gli fossero diventate di piombo; e anche la testa. Era ferito? Lo avevano lasciato lì per morto?
    No: ecco, confabulavano fuori della grotta. La sua sorte non era dunque decisa. Ma il ricordo di ciò che gli era accaduto gli si rappresentava ora, non già come d'una sciagura che gl'incombesse tuttavia e che gli suscitasse dentro qualche moto per tentare di liberarsene. No. Sapeva di non potere e quasi non voleva. La sciagura era compiuta, come avvenuta da gran tempo, quasi in un'altra vita, in una vita che forse gli sarebbe premuto di salvare, quando ancora le membra non gli pesavano così e non gli doleva tanto la testa. Ora non gl'importava più di nulla. Quella vita - pur essa miserabile - l'aveva lasciata laggiù, lontano lontano, dove lo avevano catturato: e qua ora c'era questo silenzio, così alto e vano, così smemorato.
    Quand'anche lo avessero lasciato andare, non avrebbe avuto più la forza, fors'anche neppure il desiderio di tornare laggiù a riprendersela, quella sua vita.
    Ma no, ecco: una gran tenerezza, di pietà per sé, gli risorse a un tratto e gli s'arruffò tutta dentro come in un brivido d'orrore, appena vide entrare uno di quei tre, carponi nella grotta, col viso nascosto da un fazzoletto rosso, forato all'altezza degli occhi. Gli guardò subito le mani. No, nessun'arma. Una matita nuova, di quelle da un soldo, non ancora temperata. E nell'altra mano, per terra, un rozzo foglietto di carta da lettere tutto brancicato, con la busta in mezzo. Alleggerito, senza volerlo, sorrise; mentre nella grotta entravano gli altri due, anch'essi carponi e bendati. Uno gli s'appressò e gli sciolse le mani soltanto. Il primo disse:
    - Giudizio! Scrivete!
    Gli parve di riconoscerlo alla voce. Ma sì, Manuzza; detto così perché aveva un braccio più corto dell'altro. Oh, e allora... Ma era proprio lui? Gli guardò il braccio manco. Lui, sì. E certo anche gli altri due avrebbe riconosciuti subito, se si fossero tolta la benda. Conosceva tutta la cittadinanza. Disse allora:
    - Io, giudizio? Giudizio voi, figliuoli! A chi volete che scriva? Con che debbo scrivere? con questa?
    E mostrò la matita.
    - Perché? Non è matita?
    - Matita, sì. Ma voi non sapete neppure come s'adopera.
    - Perché?
    - Ma bisognerà prima temperarla.
    - Temperarla?
    - Con un temperino, già, qua in punta...
    - Temperino, niente!
    E Manuzza ripeté:
    - Giudizio! giudizio, sacramento!
    - Giudizio, sì, Manuzza mio...
    - Ah, - gridò questi. - M'avete riconosciuto?
    - Abbi pazienza, ti nascondi la faccia e lasci scoperto il braccio? Levati codesto fazzoletto e guardami negli occhi. Fai questo, a me?
    - Senza tante chiacchiere, - gridò Manuzza, strappandosi con ira il fazzoletto dalla faccia. - V'ho detto giudizio! Scrivete, o v'ammazzo!
    - Ma sì, sono pronto, - si rimise il Guarnotta. - Quand'avrete temperato la matita. Però, se mi lasciate dire... Volete danari, è vero, figliuoli? Quanto?
    - Tre mila onze!
    - Tre mila? Non volete poco.
    - Voi ce l'avete! Non facciamo storie!
    - Tre mila onze?
    - Più! più!
    - Anche più, sì. Ma non a casa, in contanti. Dovrei vendere case, terre. E vi pare che si possa, così, da un giorno all'altro, e senza me?
    - Vuol dire che se le faranno prestare!
    - Chi?
    - Vostra moglie e i vostri nipoti!
    Il Guarnotta sorrise amaramente e provò a rizzarsi su un gomito.
    - Volevo dirvi questo, appunto, - rispose. - Figliuoli miei, avete sbagliato. Contate su mia moglie e sui suoi nipoti? Se volete ammazzarmi, è un conto: sono qua: ammazzatemi, e non se ne parli più. Ma se volete danari, non potete averli che da me, e a patto di lasciarmi andare a casa.
    - Che dite? a casa? Voi? Fossimo matti! Scherzate!
    - E allora... - sospirò il Guarnotta.
    Manuzza strappò di mano rabbiosamente il foglietto da lettere al compagno e ripeté:
    - Senza tante chiacchiere, v'ho detto, scrivete! La matita... Ah già, bisogna temperarla... Come si tempera?
    Il Guarnotta spiegò come; e i tre allora, dopo essersi guardati negli occhi, uscirono dalla grotta. Nel vederli uscire, così carponi, come tre bestie, non poté fare a meno di sorridere ancora una volta, il Guarnotta. Pensò che ora di là si sarebbero messi in tre a temperare quella matita, e che forse, a furia di potarla come un ramo d'albero, non ne sarebbero venuti a capo. Già, ma lui ne sorrideva, e forse la sua vita in quel punto dipendeva dalla ridicola difficoltà che quei tre incontravano in quell'operazione per loro nuova: forse, stizziti di vedersi mancare in mano la matita a pezzo a pezzo, sarebbero rientrati a fargli la prova che se i loro coltelli non erano buoni da temperare una matita, erano però buoni da scannarlo. E aveva fatto male, un errore imperdonabile aveva commesso a dichiarare a quel Manuzza d'averlo riconosciuto. - Ecco: si bisticciavano di là, sbuffavano, bestemmiavano... Certo, si passavano dall'uno all'altro quella povera matita da un soldo sempre più corta. Chi sa che coltelli avevano in mano, in quelle loro manacce scabre e cretose.
    Eccoli che rientravano a uno a uno, sconfitti.
    - Legno lasco, - disse Manuzza. - Una schifezza! Voi che sapete scrivere non ce n'avreste in tasca un'altra bell'e temperata, per combinazione?
    - Non ce l'ho, figliuoli, - rispose il Guarnotta. - Ma è inutile, v'assicuro. Avrei scritto, se mi davate da scrivere; ma a chi? A mia moglie e a quei nipoti? Quei nipoti sono suoi e non miei, capite? E nessuno avrebbe risposto, siatene pur certi; avrebbero finto di non aver ricevuto la lettera minatoria, e addio. Se volete danari da loro, non dovevate buttarvi in prima su me: dovevate invece andare da loro e accordarvi: tanto - poniamo mille onze - per ammazzarmi. Non ve l'avrebbero date nemmeno; perché la mia morte, la desiderano sì, ma sono vecchio; se la aspettano dunque da Dio gratis e senza rimorsi, tra quattro giorni. Pretendete sul serio che vi diano un centesimo, un solo centesimo, per la mia vita? Avete sbagliato. La mia vita a me soltanto può premere. Non mi preme, ve lo giuro; ma certo, morire così, di mala morte, non mi piacerebbe; e solo per non morire così, vi prometto e giuro su la sant'anima di mio figlio che appena posso, fra due, tre giorni, verrò io stesso a portarvi il danaro al posto che m'indicherete.
    - Dopo averci denunziato?
    - Vi giuro di no! Vi giuro che non fiaterò con nessuno! Si tratta della vita!
    - Ora. Ma quando sarete libero? Prima di andare a casa, andrete a fare la denunzia.
    - Vi giuro di no! Certo, dovete aver fiducia. Pensate ch'io vado ogni giorno in campagna. La mia vita è là, tra voi; e io sono stato sempre come un padre per voi. Mi avete sempre rispettato, santo Dio, e ora... Pensate che vorrei espormi al rischio d'una vendetta? Abbiate fiducia, lasciatemi ritornare a casa e state sicuri che avrete il danaro...
    Non risposero più. Tornarono a guardarsi negli occhi, e uscirono di nuovo dalla grotta, carponi.

    Per tutta la giornata non li rivide più. Li udì un pezzo, dapprima, discutere fuori della grotta; poi non udì più nulla.
    Aspettò, rivolgendo in mente tutte le supposizioni intorno a ciò che avessero potuto decidere. Gli parve certo questo: ch'era caduto in mano di tre stupidi, novizii, forse, anzi senza dubbio al loro primo delitto.
    Ci s'erano buttati come ciechi, senza considerare prima le sue condizioni di famiglia; solo pensando ai suoi danari. Ora, convinti dello sbaglio commesso, non sapevano più, o non vedevano ancora, come cavarsene. Del giuramento che non sarebbero stati denunziati, nessuno dei tre si sarebbe fidato; meno di tutti Manuzza ch'era stato riconosciuto. E allora?
    Allora, non gli restava da augurarsi altro, che a nessuno dei tre sorgesse il pentimento dello stupido atto compiuto invano, e insieme il desiderio di cancellarlo per rimettersi sulla buona via; che tutti e tre, invece, risoluti a vivere fuori d'ogni legge, a commettere altri delitti, non dovessero intanto curarsi di cancellare ogni traccia di questo primo e di gravarsene inutilmente la coscienza. Perché, riconosciuto lo sbaglio e risoluti a restare tre birbaccioni al bando, potevano fargli salva la vita e lasciarlo andare senza curarsi della denunzia; ma, se volevano ritornare sulla buona via, pentiti, allora per forza, a impedire la denunzia di cui si tenevano certi, dovevano assassinarlo.
    Ne seguiva, che Dio doveva dunque ajutarlo ad aprir loro la mente; perché riconoscessero che nessun profitto si ricava a voler restare galantuomini. Cosa non difficile con loro, visto che la buona intenzione di gettarsi alla perdizione l'avevano dimostrata, catturandolo. Ma c'era da temere pur troppo del disinganno che avevano dovuto provare così a prima giunta, toccando con mano il grosso sbaglio commesso appena incamminati sulla nuova via. E fa presto un disinganno a cangiarsi in pentimento e in voglia di ritrarsi da un cammino che cominci male. Per tirarsene indietro, cancellandovi ogni orma dei primi passi, la logica, sì, portava a commettere un delitto; ma, a volerlo scansare, la stessa logica non li avrebbe portati ad avventurarsi per quel cammino in cerca d'altri delitti? E allora, meglio quest'uno qua a principio, che poteva restar nascosto e senza traccia, che tanti là allo scoperto e allo sbaraglio. A costo di quest'uno, potevano avere ancora speranza di salvarsi, se non di fronte alla loro coscienza, di fronte agli uomini; a volerlo scansare, si sarebbero certo perduti.
    Conclusione di queste tormentose riflessioni: la certezza che oggi o domani, forse quella notte stessa, nel sonno, lo avrebbero assassinato.

    Attese, fino a tanto che nella grotta non si fece bujo.
    Allora, al pensiero che quel silenzio, e la stanchezza potessero su lui più della paura di cedere al sonno, sentì dalla testa ai piedi un fremito di tutto il suo istinto bestiale che lo spingeva, pur così con le mani e i piedi ancora legati, a uscir fuori della grotta a forza di gomiti, strisciando come un verme per terra; e dovette penar tanto a persuadere a quel suo istinto atterrito di fare quanto meno rumore fosse possibile; perché poi, tanto, che sperava sporgendo il capo come una lucertola fuori della tana? Niente! vedere il cielo almeno, e vederla lì fuori, all'aperto, con gli occhi, la morte, senza che gli fosse inflitta a tradimento nel sonno. Questo, almeno.
    Ah, ecco... Zitto! Era lume di luna? Luna nuova, sì, e tante stelle... Che serata! Dov'era? Su una montagna... Che aria e che altro silenzio! Forse era il monte Caltafaraci, quello, o il San Benedetto... E allora, quello là? Il piano di Consòlida, o il piano di Clerici? Sì, e quella là verso ponente doveva essere la montagna di Carapezza. Ma allora quei lumetti là, esitanti, come sprazzi di lucciole nella chiaria opalina della luna? Quelli di Girgenti? Ma dunque... oh Dio, dunque era proprio vicino? E gli pareva che lo avessero fatto camminare tanto... tanto...
    Allungò lo sguardo intorno, quasi gl'incutesse paura la speranza che quelli lo avessero lasciato lì e se ne fossero andati.
    Nero, immobile, accoccolato come un grosso gufo su un greppo cretoso della montagna, uno dei tre, rimasto a guardia, si stagliava preciso nella chiara soffusione dell'albor lunare. Dormiva?
    Fece per sporgersi un po', ma subito lo sforzo gli s'allentò nelle braccia alla voce di colui, che, senza scomporsi, gli diceva:
    - Vi sto guardando, don Vicè! Rientrate, o vi sparo.
    Non fiatò, come se volesse far nascere in colui il dubbio d'essersi ingannato, rimase lì quatto a spiare. Ma colui ripeté:
    - Vi sto guardando.
    - Lasciami prendere una boccata d'aria, - gli disse allora. - Qua si soffoca. Mi volete lasciare così? Ho sete.
    Colui si scrollò minacciosamente:
    - Oh! se volete restare costì, dev'essere a patto di non fiatare. Ho sete anch'io e sono digiuno come voi. Silenzio, o vi faccio rientrare.
    Silenzio. E quella luna che rivelava tanta vista di tranquilli piani e di monti... e il sollievo di tutta quell'aria, almeno... e il sospiro lontano di quei lumetti là del suo paese...
    Ma dov'erano andati gli altri due? Avevano lasciato a questo terzo l'incarico d'ucciderlo durante la notte? E perché non subito? Che aspettava colui? Aspettava forse nella notte il ritorno degli altri due?
    Fu di nuovo tentato di parlare, ma si trattenne. Tanto, se avevano deciso così...
    Volse gli occhi al greppo dove colui stava seduto: lo vide ricomposto nel primo atteggiamento. Chi era? Alla voce, poc'anzi, gli era parso uno di Grotte, grosso borgo tra le zolfare. Che fosse Fillicò? Possibile? Buon uomo, tutto d'un pezzo, bestia da lavoro, di poche parole... Se era lui veramente, guaj! Così taciturno e duro, se era riuscito a smuoversi dalla bontà, guaj.
    Non poté più reggere; e, con una voce quasi involontaria, vuota d'ogni intenzione, quasi dovesse arrivare a colui come non proferita dalla sua bocca, disse senza domandare:
    - Fillicò...
    Colui non si mosse.
    Il Guarnotta attese un pezzo e ripeté con la stessa voce, come se non fosse lui, con gli occhi intenti a un dito che faceva segni sulla rena:
    - Fillicò...
    E un brivido, questa volta, gli corse la schiena perché s'immaginò che questa sua ostinazione, di proferire il nome quasi senza volerlo, dovesse costargli, di rimando, una schioppettata.
    Ma neanche questa volta colui si mosse; e allora egli esalò in un sospiro d'estrema stanchezza tutto l'orgasmo della disperazione e abbandonò per terra il peso morto della testa come se veramente non avesse più forza né voglia di sorreggerlo. Lì, con la faccia nella rena, con la rena che gli entrava nella bocca come a una bestia morta, senza più curarsi del divieto che colui gli aveva fatto di parlare, né della minaccia d'una schioppettata, si mise allora a parlare, a farneticare senza fine. Parlò della bella luna che ora, addio, sarebbe tramontata; parlò delle stelle che Dio aveva fatto e messo così lontane perché le bestie non sapessero ch'erano tanti mondi più grandi assai della terra; e parlò della terra che soltanto le bestie non sanno che gira come una trottola e disse, come per uno sfogo personale, che in questo momento ci sono uomini che stanno a testa all'ingiù e pure non precipitano nel cielo per ragioni che ogni cristiano che non sia più creta della creta, cretaccia ma proprio di quella vile su cui Dio santo ancora non ha soffiato, dovrebbe almeno curarsi di sapere.
    E in mezzo a questo farnetichio si ritrovò d'improvviso che parlava davvero d'astronomia come un professore a colui che, a poco a poco, gli s'era accostato, ch'era anzi venuto a sederglisi accanto, lì presso l'entrata della grotta, e ch'era proprio lui, sì, Fillicò di Grotte, che le voleva sapere da tanto tempo quelle cose, benché non se ne persuadesse bene e non gli paressero vere: lo zodiaco... la via lattea... le nebulose...
    Già. Così. Ma perché quando uno non ne può più, che le ha proprio esaurite tutte nella disperazione le sue forze, altro che questo gli può avvenire di buffo! si può mettere come niente, anche sotto la mira di un fucile, a nettarsi le unghie attentamente con un fuscellino, badando che non si spezzi e non si pieghi, o a tastarsi in bocca, sissignori, i denti che gli sono rimasti, tre incisivi e un canino solo; e sissignori, a pensare seriamente se sono tre o quattro i figliuoli del bottajo, suo vicino di casa, a cui da quindici giorni è morta la moglie.
    - Parliamo sul serio. Ma dimmi un po': che ti pare che sono, per la Madonna, un filo d'erba?... questo filo d'erba qua che si strappa così, come niente? Toccami! Di carne sono, per la Madonna! e un'anima ho, che me l'ha data Dio come a te! Che mi volete scannare mentre dormo? No... sta' qua... senti... te ne vai? Ah, finché ti parlavo delle stelle... Senti che ti dico: scannami qua a occhi aperti, non mi scannare a tradimento nel sonno... Che dici? Non vuoi rispondere? Ma che aspetti? Che aspettate, si può sapere? Denari, non ne avrete; tenermi qua, non potrete; lasciarmi andare, non volete... Volete ammazzarmi? E ammazzami, corpo di Dio, e non se ne parli più!
    A chi diceva? Quello era già andato a riaccoccolarsi sul greppo come un gufo, per dimostrargli che di questo - era inutile - non voleva sentir parlare.
    Ma dopo tutto, che bestia anche lui! Non era meglio che lo uccidessero nel sonno, se dovevano ucciderlo? Anzi, più tardi, se ancora non si fosse addormentato, sentendoli entrare carponi nella grotta, avrebbe chiuso gli occhi per fingere di dormire. Ma già, che occhi! al bujo, poteva anche tenerli aperti. Bastava che non si movesse, quando sarebbero venuti a cercargli la gola, a tasto, come a un pecoro.
    Disse:
    - Buona notte.
    E si ritrasse.

    Ma non lo uccisero.
    Riconosciuto lo sbaglio, né liberare lo vollero e neppure uccidere. Lo tennero lì.
    Ma come, per sempre?
    Finché Dio avrebbe voluto. Si rimettevano a Lui: presto o tardi, a seconda che Egli avrebbe voluto fare più o meno lunga la penitenza per lo sbaglio d'averlo catturato.
    O che intendevano insomma? che egli morisse da sé, lassù, di morte naturale? Intendevano questo?
    Questo, sì.
    - Ma che Dio e Dio, allora! Pezzi d'animali, non m'ucciderà mica Dio, m'ucciderete voi così, tenendomi qua, morto di fame, di sete, di freddo, legato come una bestia, in questa grotta, a dormire per terra, a fare per terra qua stesso, come una bestia, i miei bisogni!
    A chi diceva? S'erano rimessi a Dio, tutti e tre; e come se parlasse alle pietre.
    Intanto, morto di fame, non era vero; dormire per terra, non era vero. Gli avevano portato lassù tre fasci di paglia per fargliene una lettiera, e anche un loro vecchio cappotto d'albagio, perché si riparasse dal freddo. Poi, pane e companatico ogni giorno. Se lo levavano di bocca, lo levavano di bocca alle loro creature e alle loro mogli per darlo a lui. E pane faticato col sudore della fronte, perché uno, a turno, restava lì di guardia, e gli altri due andavano a lavorare. E in quello ziretto là di terracotta c'era acqua da bere, che Dio solo sapeva che pena a trovarla per quelle terre assetate. Quanto poi a far lì per terra i suoi bisogni, poteva uscire dalla grotta, la sera, e farli all'aperto.
    - Ma come? davanti a te?
    - Fate. Non vi guardo.
    Di fronte a quella durezza stupida e irremovibile si sarebbe messo a pestare i piedi come un bambino. Ma che erano, macigni? che erano?
    - Riconoscete d'avere sbagliato, sì o no?
    Lo riconoscevano.
    - Riconoscete di doverlo scontare, questo sbaglio?
    Sì, non uccidendolo, aspettando da Dio la sua morte e sforzandosi d'alleviargli per quanto potevano il martirio che gli davano.
    - Benissimo! Ma questo è per voi, pezzi d'animali, per il male che voi stessi riconoscete d'aver commesso! Ma io? che c'entro io? che male ho commesso io? Sono sì o no la vittima del vostro sbaglio? E fate scontare anche a me, che non c'entro, il male che voi avete commesso? Devo patire io così, perché voi avete sbagliato? Così ragionate?
    Ma no: non ragionavano affatto, loro. Stavano ad ascoltarlo, impassibili, con gli occhi fermi e vani, nelle dure facce cretose. E qua la paglia... e lì il cappotto... e lo ziretto dell'acqua... e il pane col sudore della fronte... e venite a cacare all'aperto.
    Non si sacrificavano forse, uno alla volta, a star lì di guardia e a tenergli compagnia? E lo facevano parlare delle stelle e delle cose della città e della campagna, delle buone annate d'altri tempi, quando c'era più religione, e di certe malattie delle piante che prima, quando c'era più religione, non si conoscevano. E gli avevano portato anche un vecchio Barbanera, trovato chi sa dove, perché ingannasse l'ozio, leggendo; lui che aveva la bella fortuna di saper leggere.
    - Che diceva, che diceva quello stampato, con tutte quelle lune e quella bilancia e quei pesci e quello scorpione?

    Sentendolo parlare, si svegliava in loro un'ingorda curiosità di sapere, piena di meraviglie grugnite e di sbalordimenti bambineschi, a cui egli, a poco a poco, cominciava a prender gusto, come a una cosa viva che nascesse da lui, da tutto ciò che in quei discorsi con loro traeva, come nuovo, anche per sé, dal suo animo ormai da tanti anni addormentato nella pena della sua incresciosa esistenza.
    E sentiva, sì, che ormai cominciava a essere una vita anche per lui, quella; una vita a cui aveva preso ad adattarsi, caduta la rabbia davanti a una ineluttabilità che non gliela faceva più pensare precaria, quantunque incerta, strana e come sospesa nel vuoto.
    Già per tutti là, al suo podere lontano affacciato sul mare, e nella città di cui nella notte vedeva i lumi, egli era morto. Forse nessuno s'era mosso a far ricerche, dopo la sua scomparsa misteriosa; e seppur lo avevano ricercato, lo avevano fatto senza impegno, non premendo a nessuno di ritrovarlo.
    Col cuore ridotto più arido e squallido della creta di quella grotta, che gl'importava ormai di ritornare vivo là, a quella vita di prima? aveva veramente qualche ragione di rimpianto per tutte le cose che qua gli mancavano, se il riaverle là doveva essere a costo dell'amara noja di prima? Non si trascinava là, in quella vita col peso addosso, d'un tedio insopportabile? Qua, almeno, ora stava sdrajato per terra e non si trascinava più.
    Le giornate gli passavano, in quel silenzio d'altura, quasi fuori del tempo, vuote d'ogni senso e senza scopo. In quella vacuità sospesa anche la stessa intimità della coscienza gli cessava: guardava la sua spalla e la creta accanto della grotta, come le sole cose che esistessero; e la sua mano, se vi fissava gli occhi, come se esistesse, così solo per se stessa; e quel sasso e quello sterpo, in un isolamento spaventoso.

    Se non che, avvertendo a mano a mano che quanto gli era occorso non era poi per lui tutta quella sciagura che in principio, per la rabbia dell'ingiustizia, gli era apparsa, cominciò anche ad accorgersi che davvero era una ben dura e grave punizione, a cui da se stessi quei tre s'erano condannati, il tenerlo ancora in vita.
    Morto com'era già per tutti, restava vivo solo per essi, vivo e con tutto il peso di quella vita inutile, di cui egli ora, in fondo, si sentiva liberato. Potevano buttarlo via come niente, quel peso che non aveva più valore per nessuno, di cui nessuno più si curava; e invece, no, se lo tenevano addosso, lo sopportavano rassegnati alla pena che da loro stessi s'erano inflitta, e non solo non se ne lagnavano, ma veramente facevano di tutto per rendersela più gravosa con le cure che gli prodigavano. Perché, sissignori, gli s'erano affezionati, tutti e tre, come a qualche cosa che appartenesse a loro, ma proprio a loro soltanto e a nessun altro più, e dalla quale misteriosamente traevano una soddisfazione, di cui, seppur la loro coscienza non sentiva il bisogno, avrebbero per tutta la vita avvertito la mancanza, quando fosse venuta loro a mancare.
    Fillicò un giorno portò su alla grotta la moglie, che aveva un bimbo attaccato al petto e una ragazzetta per mano. La ragazzetta recava al nonno una bella corona di pan buccellato.
    Con che occhi erano rimaste a mirarlo, madre e figlia! Dovevano essere passati già parecchi mesi dalla cattura, e chi sa come s'era ridotto: la barba a cespugli sulle gote e sul mento; sudicio, strappato... Ma rideva per far loro buona accoglienza, grato della visita e del regalo di quel buon pane buccellato. Forse però era appunto il riso in quella sua faccia da svanito, che faceva tanto spavento alla buona donna e alla ragazzetta.
    - No, carinella, vieni qua... vieni qua... Tieni, te ne do un pezzetto; mangia... L'ha fatto mamma?
    - Mamma...
    - Brava! E fratellini, ne hai? Tre? Eh, povero Fillicò, già quattro figli... Portameli, i maschietti: voglio conoscerli. La settimana ventura, bravo. Ma speriamo che non ci arrivi...

    Ci arrivò. Altro che! Lunga, proprio lunga volle Dio che fosse la punizione. Per più di altri due mesi la tirò!
    Morì di domenica, una bella serata che lassù c'era ancora luce come se fosse giorno. Fillicò aveva condotto i suoi ragazzi, a vedere il nonno, e anche Manuzza, i suoi. Tra quei ragazzi morì, mentre scherzava con loro, come un ragazzino anche lui, mascherato con un fazzoletto rosso sui capelli lanosi.
    I tre accorsero a raccoglierlo da terra, appena lo videro cadere all'improvviso, mentre rideva e faceva tanto ridere quei ragazzi.
    Morto?
    Scostarono i ragazzi; li fecero andar via con le donne. E lo piansero, lo piansero, inginocchiati tutti e tre attorno al cadavere, e pregarono Dio per lui e anche per loro. Poi lo seppellirono dentro la grotta.
    Per tutta la vita, se a qualcuno per caso avveniva di ricordare davanti a loro il Guarnotta e la sua scomparsa misteriosa:
    - Un santo! - dicevano. - Oh! Andò certo diritto in paradiso con tutte le scarpe, quello!

    Perché il purgatorio erano certi d'averglielo dato loro là, su la montagna.
     
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  8. RockerFoX
     
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    Quest'estate ho letto l'idiota di Dostojeski, lo consiglio a tutti... tra i passi che più mi sono piaciuti sicuramente ve ne sta uno in cui dostojeski parla della pena di morte e dell'impossibilità invitabile che ognuno di noi ha di vivere "minuto x minuto"... bellissimo
     
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    quella sulla pena d morte la inserii nell'articolo ke pubblicarono sul giornale... davvero bellissima hai ragione ;)
     
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  10. RockerFoX
     
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    Quando Zarathustra giunse nella più vicina città, situata al confine della foresta, vi trovò molta folla adunata sul mercato: poiché era giunta notizia che un funambolo vi avrebbe dato spettacolo. E Zarathustra così parlò al popolo:
    "Io vi annunzio il Superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete voi fatto per superarlo?
    Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo?
    Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una risata, una penosa vergogna. Questo deve essere l'uomo per il Superuomo: una risata, una penosa vergogna.
    Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme. Una volta eravate scimmie, e anche oggi l'uomo è più scimmia di qualunque scimmia.
    Chi tuttavia è fra voi il più saggio, non è che un essere disarmonico, un ibrido fra la pianta e il fantasma. Vi dico io forse di divenire piante o fantasmi?
    Ascoltate, io vi insegno il Superuomo!
    Il Supenuomo è il senso della terra. E così il vostro volere dica: il Superuomo deve essere il senso della terra!
    Vi imploro, o miei fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Sono degli avvelenatori, consapevoli o meno: Sono spregiatori della vita, gente che sta morendo, avvelenati essi stessi da se stessi: la terra è stanca di loro: possano per sempre scomparire!
    Una volta il crimine contro Dio era il più grande peccato; ma Dio è morto, e con lui sono morti anche i colpevoli di quel crimine. Oggi la colpa più orribile è peccare contro la terra, e tenere in più alto pregio le viscere dell'impenetrabile che, il senso della terra!
    Una volta l'anima guardava con dispregio il corpo: e questo dispregio era il più alto valore: essa lo voleva magro, orrido, affamato. Così immaginava di sfuggire al corpo e alla terra.
    Ahimè, era l'anima stessa che era magra, orrida, affamata: e la crudeltà era la sua voluttà!
    Ma anche voi, fratelli miei, ditemi: che dice il vostro corpo della vostra anima? Non è essa meschinità e sozzura e tristo piacere?
    L'uomo è veramente un fiume melmoso. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume così sudicio senza rimanerne insudiciati.
    Ascoltate, io vi insegno il Superuomo: egli è questo mare, in esso può sprofondare il vostro grande disprezzo.
    Qual è la massima esperienza che potete vivere? L'ora del grande disprezzo. L'ora nella quale anche la vostra gioia diventa uno schifo, così la vostra ragione e la vostra virtù.
    L'ora nella quale voi dite: ‘Che me ne importa della mia felicità! È una cosa povera e sporca e un misero conforto. Proprio la mia felicità, dovrebbe da sola bastare a giustificare l'esistenza!’
    L'ora nella quale vol dite: 'Che me ne importa della mia ragione! Forse avete fame di sapienza come il leone ha fame del suo cibo? Ma non è che cosa povera e sporca e un misero conforto!'
    L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia vlrtù! Essa non è riuscita ancora a farmi immpazzire! Come sono stanco del mio bene e dei mio male! Tutto ciò non è che povero e sporco e un misero conforto!'
    L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia giustizia! Io non vedo ch'io sia ancora divenuto un carbone ardente. Ma il giusto è un carbone ardente!'
    L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia compassione! Non è compassione la croce alla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia compassione non è una crocefissione'.
    Avete già parlato in questo modo? Avete già urlato in questo modo? Ah, se vi avessi udito già gridare in questo modo!
    Non il vostro peccato; è la vostra contentezza soddisfatta che grida vendetta al cospetto del cielo, la vostra avarizia stessa che nel vostro peccato grida vendetta al cospetto del cielo!
    Dov'è il fulmine che vi abbia lambito con la sua lingua? Dove la follia della quale voi abbiate dovuto essere vaccinati?
    Vedete, io vi insegno il Superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!"
    Quando Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: "Abbiamo sentito abbastanza parlare del funambolo; fatecelo finalmente vedere!" E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il funambolo, che credette che il discorso fosse fatto per lui, cominciò a prepararsi.
     
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  11. cr4zysurg3on
     
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    Solipsìsmo
    termine usato in filosofia, indica l'atteggiamento di chi nega ogni esistenza
    al fuori della propria esistenza personale; per alcuni pensatori, fra i quali si
    annovera il tedesco Immanuel Kant, il termine riveste un'accezione morale,
    stando a delineare l'egoismo pratico, ovvero l'amore esclusivo di se stessi.
    =======================================================================================================
    "Tutti noi abbiamo illusioni solipsistiche, spaventose intuizioni di una nostra assoluta singolarità: crediamo di essere gli unici della casa a riempire il contenitore dei cubetti di ghiaccio, gli unici a svuotare la lavastoviglie dai piatti puliti, gli unici a fare ogni tanto pipì nella doccia, gli unici ad avere un piccolo tic alle palpebre al primo appuntamento; di essere gli unici a prendere la nonchalance tremendamente sul serio; di essere solo noi a dare alle suppliche l'aspetto della cortesia; di essere solo noi a sentire il gemito patetico nello sbadiglio di un cane, il sospiro senza tempo nell'apertura di un barattolo ermeticamente sigillato, la risata sputacchiata qua e là in un uovo che frigge, il lamento in re minore nel rombi di un'aspirapolvere; di essere solo noi a provare quando il sole tramonta lo stesso tipo di panico che un bimbo al primo giorno di asilo prova quando la mamma si allontana. Di essere solo noi ad amari i solo-noi. Di essere solo noi ad aver bisogno dei solo-noi. Il solipsismo ci tiene insieme."
    tratto da "Verso Occidente l'impero dirige il suo corso" di David Foster Wallace
     
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  12. Bluejam
     
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    "Un terzo delle nostre brevi vite lo passiamo a dormire, non c'è nessuno che lo ignori, e basta solo dare uno sguardo alla nostra personale esperienza, fra il coricarsi e l'alzarsi i conti sono subito fatti, scontando le insonnie se qualcuno ne soffre e, in genere, il tempo speso in esercizi notturni di arte amatoria, ancora sempre apprezzati e praticati nelle ore cosiddette morte, nonostante la crescente diffusione degli orari flessibili che, in questo e in altri particolari, sembrano finalmente avviarci alla realizzazione dei sogni d'oro dell'anarchia, cioè quell'auspicata età in cui ciascuno potrà fare quello di cui avrà davvero voglia, alla sola condizione, elementare, di non ferire o limitare la voglia del suo prossimo. Sì, non c'è niente di più semplice, ma il fatto che fino ad oggi non siamo riusciti neppure a identificare con durevole esattezza il nostro prossimo tra la folla degli estranei, ci dimostra, se ce ne fosse bisogno, quanto per tradizione sapevamo, che la difficoltà di realizzare ciò che è semplice supera in complessità tutti i mestieri e le tecniche, o, in altre parole, è meno difficile concepire, creare, costruire e maneggiare un cervello elettronico che trovare nel nostro la semplice maniera di essere felici. Tuttavia, dopo un tempo ne viene un altro, si diceva, e la speranza è sempre l'ultima a morire. Purtroppo, invece, la nostra può cominciare a morire subito, perché il tempo che ancora manca alla felicità universale lo si conta con misure astronomiche, e questa generazione non aspira a vivere tanto, oltre al fatto che è evidente quanto sia scoraggiata.”

    Josè Saramago: Storia dell'assedio di Lisbona
     
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    IL MITO DI PANDORA

    Gli dèi infatti tengon nascosto agli uomini il sostentamento,
    ché facilmente, allora, potresti lavorare un solo giorno
    e per un anno ne avresti, anche restando nell'ozio,
    presto il timone lo potresti appendere sul fumo
    e sarebbe finito il lavoro dei buoi e dei muli pazienti;
    ma Zeus lo nascose adirato dentro il suo cuore.
    Perché Prometeo dagli astuti pensieri lo aveva ingannato,
    per questo meditò agli uomini tristi sciagure:
    nascose il fuoco; ma ancora di Iapeto il figlio valente
    lo rubò per gli uomini a Zeus dai saggi consigli
    di nascosto a Zeus fulminatore, in una ferula cava.
    A lui Zeus che aduna le nuvole disse adirato:
    "O figlio di Iapeto, tu che fra tutti nutri i pensieri più accorti,
    tu godi del fuoco rubato e di avermi ingannato,
    ma a te un gran male verrà, e anche agli uomini futuri:
    io a loro, in cambio del fuoco, darò un male, e di quello tutti
    nel cuore si compiaceranno, il loro male circondando d'amore".
    Così disse e rise il padre di uomini e dèi:
    a Efesto illustre ordinò poi che, veloce,
    intridesse terra con acqua, vi ponesse dentro voce umana
    e vigore e, somigliante alle dee immortali nell'aspetto, formasse
    bella e amabile figura di vergine; poi ad Atena
    che le insegnasse i lavori: a tesser la tela dai molti ornamenti,
    e che grazia intorno alla fronte le effondesse l'aurea Afrodite
    e desiderio tremendo e le cure che rompon le membra;
    che le ispirasse un sentire impudente e un'indole scaltra
    ordinò ad Ermete, il messaggero Argifonte.
    Così disse, e quelli obbedirono a Zeus Cronide signore;
    allora di terra formò l'illustre Zoppo
    un'immagine simile a vergine casta, secondo la volontà del Cronide;
    la cinse e l'adornò la dea glaucopide Atena,
    attorno le dee Grazie e Persuasione signora
    le posero auree collane, attorno a lei
    le Ore dalle belle chiome intrecciaron collane di fiori di primavera;
    ed ogni ornamento al suo corpo adattò Pallade Atena.
    Dentro al suo petto infine il messaggero Argifonte
    menzogne e discorsi ingannevoli e scaltri costumi
    pose, come voleva Zeus che tuona profondo, e dentro la voce
    le pose l'araldo di dèi e chiamò questa donna
    Pandora, perché tutti gli abitatori delle case d'Olimpo
    la diedero come dono, pena per gli uomini che mangiano pane.
    Poi, dopo che l'inganno difficile e senza scampo ebbe compiuto,
    ad Epimeteo il padre mandò l'illustre Argifonte,
    araldo veloce, a portare il dono degli dèi; ed Epimeteo
    non volle porre mente, come a lui Prometeo diceva,
    a non accogliere mai dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo
    indietro, che qualche male non dovesse venire ai mortali:
    però solo dopo che l'ebbe accolto, quando subì la disgrazia, capì.
    Prima infatti sopra la terra la stirpe degli uomini viveva
    lontano e al riparo dal male, e lontano dall'aspra fatica,
    da malattie dolorose che agli uomini portan la morte
    - veloci infatti invecchiano i mortali nel male -.
    Ma la donna, levando con la sua mano dall'orcio il grande coperchio,
    li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto.
    Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
    dentro all'orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
    volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell'orcio
    per volere di Zeus egioco che aduna le nubi.
    E infinite tristezze vagano fra gli uomini
    e piena è la terra di mali, pieno n'è il mare;
    i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte
    da soli si aggirano, ai mortali mali portando,
    in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus.
    Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.

    Esiodo - Opere e giorni
     
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    Luigi Pirandello Novelle per un anno Candelora


    CANDELORA

    Nane Papa, con le mani grassocce appese alle falde del vecchio panama sformato, dice a Candelora:
    - Non ti conviene. Dai retta a me, cara. Non ti conviene.
    E Candelora, su le furie, gli grida:
    - E che mi conviene allora? rimanere con te? crepare qua di rabbia, di schifo?
    Nane Papa, placido, calcandosi sempre piú il panama:
    - Sì, cara. Ma senza crepare. Con un po' di pazienza. Guarda, per dirla com'è, Chico...
    - Ti proibisco di chiamarlo così!
    - E non lo chiami così tu?
    - Appunto perché lo chiamo io così!
    - Ah, bene. Credevo di farti piacere. Vuoi allora che lo chiami il barone? Il barone. Dico che il barone ti ama, Candelora mia, e spende per te...
    - Ah, per me spende? Buffone! Mascalzone! Non spende assai piú per te?
    - Se non mi lasci finire... Spende per me e per te, il barone. Ma vedi? Se spende assai piú per me, che significa? Sii ragionevole. Significa che dà prezzo a te unicamente perché tu ricevi il lustro da me. Questo non lo puoi negare.
    - Lustro? - torna a gridare Candelora, al colmo della rabbia. - Sì, lustro di queste...
    Alza un piede e gli mostra la scarpa.
    - Vergogna ricevo! vergogna! vergogna!
    Nane Papa sorride, e piú placido che mai risponde:
    - No, scusa. Vergogna io, se mai. Sono tuo marito. È tutto qui, credi, Loretta. Se non fossi tuo marito e, sopratutto, se tu non stessi piú con me, sotto questo tetto ospitale, tutto il gusto, capisci? svanirebbe. Qua possono venire a onorarti impunemente, e tutti con un piacere tanto piú grande, quanto piú tu, diciamo così, mi fai disonore e vergogna. Senza piú me, tu, Loretta Papa, diventeresti subito una piccola cosa di poco valore e di molto rischio, per cui Chico... il barone, non spen... Che fai
    Piangi? Ma no, via! Io sto scherzando...
    Nane s'accosta a Candelora; fa per passarle una mano sotto il mento; ma Loretta gli ghermisce il braccio; apre la bocca come una belva e gli addenta quel braccio; a lungo, a lungo, senza lasciare, stringendo sempre piú forte, rabbiosamente.
    Curvo, per tenerle il braccio comodo all'altezza della bocca, Nane digrigna i denti anche lui, ma per sorridere muto allo spasimo che lo fa impallidire.
    Gli occhi gli diventano di punto in punto piú lustri e piú acuti.
    Poi, quando i denti di Candelora si staccano, delizia! si sente nel braccio come una bollatura di fuoco.
    Non dice nulla.
    Tira su pian piano la manica della giacca; quella della camicia non vien su. La tela s'è affondata nella carne viva. La manica bianca è pezzata nel mezzo di rosso. Una chiostra insanguinata; la chiostra dei denti forti di Candelora, impressi lì tutti a uno a uno. A sollevarla ti voglio! Ma alla fine, sempre sorridente e ancora pallidissimo Nane ci riesce. Il braccio è una pietà. In giro, ogni dentata, una ferita, e dentro, la carne è nera.
    - Vedi? - dice Nane, mostrandola.
    - Il cuore, così, ti mangerei! - rugge Candelora, tutta aggruppata sul sedile.
    - Lo so, - dice Nane. - E appunto per questo desiderio vedrai che ti persuaderai a non andartene. Togliti il cappellino, via. Un po' di tintura di iodio. per levare il veleno; la bambagia fenicata e una fascetta di garza. Su, nel cassetto della mia scrivania. Loretta: il secondo a destra. Lo so che sei una bestiolina di quelle che mordono, e appunto per questo tengo una provvista di rimedi urgenti.
    Candelora alza il braccio e lo guarda: guarda di sfuggita il braccio.
    Nane, in quell'atto, la ammira.

    È una maraviglia di forme e di colori, Candelora, una sfida dispettosa ai suoi occhi di pittore che la scoprono sempre muova e diversa.
    In questa ora meridiana, qua nel giardino della villetta, sotto questo sole nero d'agosto che si frastaglia tutto d'ombre violente, è spaventosa. Ritornata questa mattina dai bagni di mare, scabra e arrostita dal sole e dalla salsedine, ha negli occhi chiari bruciati, nel mento un po' rientrato, nei capelli gialli irruviditi, un'aria di capra addormentata nella voluttà. Con quelle robuste braccia nude spellate e quelle anche poderose par che debba stracciare a ogni mossa la fragile vesticciuola aderente, di velo azzurro, che le stride su le carni arse.
    Ah, com'è ridicola quella veste!
    Candelora ha nuotato nuda per mattinate intere, nuda su la spiaggia deserta s'è cosparse e maculate di rena infocata le sode carni al sole, sentendo alle piante dei piedi il fremito fresco delle spume marine. Come può piú nasconderle ora la nudità prorompente quella vesticciuola celeste? Messa per decenza, in realtà la fa apparire assai piú indecente che se fosse nuda.
    Nella rabbia, ella nota l'ammirazione negli occhi di lui, e istintivamente ha un sorriso di compiacimento, che subito però la esaspera. Diventa ghigno, quel sorriso; un ghigno che a un tratto si rompe in singhiozzi.
    E Candelora scappa via verso la villetta.

    Nane Papa, quasi senza volerlo, arriccia il volto in una smorfia monellesca, seguendola con gli occhi; poi si guarda il braccio ferito, che al sole gli brucia forte; poi, chi sa perché, si sente pungere anche lui gli occhi dal pianto.
    È atroce, veramente, in mezzo a un afoso meriggio di agosto. avvertire così, in una pausa, la vita che pesa, carica di vergogna e di schifo, e sentire pietà, mentre si suda, del peso sull'anima di quella vergogna e di quello schifo.
    Nella tetraggine di tutto quel sole torrido, sul giardino frastagliato d'ombre, ha il senso, ora, Nane Papa (un senso che l'opprime, lo urta e quasi lo sgomentai, della presenza di tante cose immobili e come attonitamente sospese davanti a lui: gli alberi, quegli alti fusti d'acacia, la vasca con quel giro di roccia artificiale e con quello specchio verde d'acqua stagnata, i sedili.
    Che aspettano?
    Egli può muoversi; se ne può anche andare. Ma che stranezza! Si sente come guardato da tutte quelle cose immobili, attorno; e non solo guardato, ma anche come legato dal fascino ostile, quasi ironico, che spira dalla loro attonita immobilità e che gli fa apparire inutile, stupido, anche buffo il suo potersene andare.
    Rappresenta la ricchezza del barone Chico quel giardino. Egli, Nane Papa, vi sta da circa sei mesi; e solo questa mattina ha provato il bisogno irresistibile di porre sotto gli occhi a sé stesso e a Candelora ritornata dal mare, la sua vergogna e quella di lei, in tutta la sua nudità; ma ridendo, perché Candelora pretendeva d'uscire da questa vergogna, ora che - a suo dire - potevano.
    Già! Perché si vendono bene, ora, i quadri di Nane Papa, e il valore della sua arte nuova, personalissima, s'è imposto, non già perché sia realmente compreso. ma perché l'imbecillità dei ricchi visitatori delle esposizioni d'arte è stata costretta dalla critica a fermarsi davanti alle sue tele.
    La critica? Via, una parola, la critica! Una parola che non vive, se non nei calzoni d'un critico. E il critico a cui Candelora un giorno, per disperata, volle andare a gridare in faccia se era giusto che un artista come Nane Papa morisse di fame, quel critico (il piú ascoltato di tutti) ha voluto sì con un magistrale articolo richiamare l'attenzione degli imbecilli sull'arte nuova e personalissima di Nane Papa, ma ha voluto anche che questo riconoscimento dell'artista fosse, non diciamo pagato, ma graziosamente compensato con la piú viva gratitudine di Candelora. E Candelora, subito, non solo a quel critico, ma a tutti gli ammiratori piú fanatici dell'arte nuova del marito, inebriata della vittoria che forse le pareva dovesse costarle chi sa quanto, subito s'è dimostrata gratissima; gratissima a tutti, a quel barone Chico in ispecie che - ecco è arrivato finanche ad alloggiarli nella sua villetta, per avere l'onore di dar ricetto a un portento dell'arte, a un figlio della gloria... E che trattamenti! che regali! che feste!

    Se non le è costato nulla far così, niente di male, povera Candelora!
    Le ha fatto paura la povertà, ecco. Dice di no, lei dice che le faceva rabbia, non paura; perché quella povertà non era lo stento, non era l'avvilimento, era l'ingiustizia, dato il merito di lui. Quest'ingiustizia ha voluto vendicare. E come? Eccolo, come: la villetta, l'automobile, il canotto, ori, gemme, gite, abiti, feste... E ha provato un gran dispetto per lui rimasto tal quale, né triste né lieto, sciamannato come prima, senz'altra gioja fuori di quella de' suoi colori, senz'altra voglia che di scavare, dl scavare nella sua arte per il bisogno sempre insoddisfatto di andare in fondo ad essa, quanto piú in fondo fosse possibile, tanto da non veder piú nulla della buffa fantasmagoria della vita che gli s'agita attorno.
    Forse, anzi certo, rappresenta la sua gloria, questa buffa fantasmagoria: le gemme, il lusso di Loretta, gl'inviti, le feste. La sua gloria e anche, perché no? la sua vergogna. Ma che glien'importa?
    Tutta la sua vita, tutto ciò che di vivo è in lui egli lo mette, lo dà, lo spende per il gusto di far carnosa una foglia, facendosi egli stesso pasta carnosa, fibre e vene di quella foglia; rigido e nudo un sasso, che si senta e viva sasso sulla tela: e questo solo gl'importa.
    La sua vergogna? la sua vita? la vita degli altri? Cose estranee, transitorie, di cui è vano tener conto. L'arte sua lei sola vive, l'opera che prepotentemente piglia corpo dalla luce e dal tormento della sua anima.
    Se è stata così la sua sorte, è segno che non poteva essere altrimenti. Gli pare già tanto lontana a pensarci!
    E così, come da lontano, ha detto a Loretta, questa mattina, che gli sarebbe piaciuto, certo - oh, ma senza dare alcun peso alla cosa - gli sarebbe piaciuto trovarsi accanto nella vita una compagna buona. a cui la povertà non avesse fatto tutta quella rabbia; una compagna umile e mite, sul cui seno avesse potuto riposarsi; che gli avesse ispirato con le sue sofferenze la stessa pena che gl'ispirava allora la sua arte misconosciuta.
    Loretta, naturalmente, gli è saltata addosso come una gatta inferocita.
    Ma che fa, intanto? Non ritorna giú con la tintura di jodio, la bambagia e la fascetta? Se n'è andata su piangendo, poverina...
    Vuol essere amata, adesso, Loretta. Amata da lui, forse per dispetto della sua indifferenza. Non è una pazzia? Se egli la amasse davvero, dovrebbe ucciderla. Ci vuole quella indifferenza, come condizione imprescindibile per sopportare la vergogna ch'ella gli rappresenta accanto. Uscire da questa vergogna? E come è piú possibile ormai, se tutti e due l'hanno dentro, fuori, attorno? L'unica è questa, non darci importanza, e seguitare, lui a dipingere, lei a divertirsi, con Chico per ora, poi con un altro, ma anche con Chico e un altro insieme, allegramente. Cose della vita, sciocchezze... In un modo o nell'altro, passano e non lasciano traccia. Ridere, intanto, di tutte le cose nate male, che restano a penare nelle lor forme sgraziate o sconce, finché col tempo non crollano in cenere. Ogni cosa porta con se la pena della sua forma, la pena d'esser così e di non poter piú essere altrimenti. È appunto in questo il nuovo della sua arte, nel far sentire questa pena della forma. Sa bene lui che ogni gobbo bisogna che si rassegni a portare la sua gobba. E come le forme sono i fatti. Quando un fatto è fatto, è quello, non si cangia piú. Candelora, per quanto faccia, non potrà piú, per esempio, ritornar pura come quando era povera. Sebbene pura, forse, non è stata mai, Candelora, neppure da bambina Non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto; e goderne, dopo.
    Ma come mai, così all'improvviso, questa nostalgia di purezza; di mettersi con lui, adesso, appartata, tranquilla, modesta, amorosa? Con lui, dopo quanto è avvenuto? Quasiché lui, adesso, sia piú in grado di prendere sul serio qualche cosa, nella vita: e l’amore, poi! e un amore poi, così tutto gualcito, come quello di lei, con l'immagine buffa di Chico e di quel critico e di tanti altri che, attorno a lei e a lui idillicamente abbracciati, si metterebbero a fare giro giro tondo...

    Ohè, al sole, il sangue s'è tutto aggrumato e incrostato su le dentate; e il polso, e anche un po' la mano gli si sono gonfiati; e incordate le vene.
    Nane Papa si scuote dalle sue considerazioni e s'avvia per salire alla villetta. Chiama due volte, prima dalla scala, poi dalla saletta d'ingresso:
    - Candelora! Candelora!
    La sua voce rintrona nelle stanze vuote. Nessuno risponde. Entra nella stanza accanto allo studio, ov'è la scrivania, e dà un balzo indietro. Nella gran luce, ferma in quella stanza bianca, Candelora è buttata per terra, lunga, stirata, con le vesti scomposte, come se si fosse rotolata; una coscia scoperta. Accorre, le solleva la testa. Oh Dio, che ha fatto? La bocca, il mento, il collo, il seno, sono macchiati d'un giallo nerastro. Ha bevuto la boccetta del jodio.
    - È niente! è niente! - le grida. - Candelora mia, ma che sciocchezza hai fatto? Bambina mia... Ma non è niente! Ti brucerà un po' lo stomaco... Su! su!
    Cerca di sollevarla, e non ci riesce, perché la poverina s'è indurita nello spasimo. Ma non le dice poverina, lui: - Bambina... bambina... - perché gli pare un po' buffo il fatto che abbia bevuto la tintura di jodio. - Bambina... - le ripete, e la chiama anche scioccherella sua... E cerca di tirar la veste azzurra, labile, su quella coscia scoperta che l'offende; e torce gli occhi per non vederle la bocca così tutta nera... La vesticciuola si lacera allo strappo della sua mano convulsa e scopre di più la coscia.
    È solo nella villa. Loretta ritornata quella mattina dai bagni di mare, prima di partire volle licenziare le donne di servizio. Nessuno dunque può ajutarlo a sollevarla da terra; nessuno può correre a chiamare una vettura per farla trasportare a un ospedale per un pronto soccorso. Ma per fortuna, ecco dalla via la tromba dell'automobile di Chico, il barone. E, poco dopo, Chico appare, sbalordito, con la faccia gialla di vecchio ebete sul corpo giovanile, sperticato, elegantissimamente vestito.
    - Oh! e che è?
    Senza volerlo, sporge l'occhio con la caramella, a fissar quella coscia scoperta.
    - Ajutami a sollevarla, perdio! - gli grida Nane, esasperato dagli inutili sforzi.
    Ma appena la sollevano, dalla mano rimasta schiacciata sotto il fianco casca a terra una rivoltella, e lì, dov'era il fianco, si scopre una chiazza di sangue.
    - Ah! ah! - geme allora Nane, trasportandola con Chico verso la camera da letto.
    Non è indurita dallo spasimo, Loretta, ma dalla morte. Nane Papa, come impazzito, appena disteso il cadavere sul letto, grida a Chico:
    - Chi era ai bagni con voi? dimmi chi era ai bagni con voi quest'estate!
    Chico, smarrito fa alcuni nomi.
    - Ah, perdio! - esclama allora Nane, feroce, venendogli addosso, afferrandolo per il petto e scrollandolo tutto. - Ma è possibile che dobbiate essere tutti quanti così stupidi, voialtri che avete un po' di quattrini?
    - Così stupidi? noi? - fa Chico, piú che mai imbalordito, rinculando a ogni scrollone.
    - Ma sì! ma sì! ma sì! - seguita a inveire Nane Papa. - Cosi stupidi da far nascere la voglia a questa poverina d'essere amata da me! Capisci? Da me! da me! Amata da me!
    E rompe in un pianto disperato abbattendosi sul cadavere di Loretta.


    Luigi Pirandello Novelle per un anno Candelora


    IL SIGNORE DELLA NAVE

    Giuro che non ho voluto offendere il signor Lavaccara né una volta né due, come in paese si va dicendo.
    Il signor Lavaccara mi volle parlare d'un suo porco per convincermi ch'era una bestia intelligente.
    Io allora gli domandai:
    - Scusi, è magro?
    Ed ecco che il signor Lavaccara mi guardò una prima volta come se con questa domanda non propriamente lui ma avessi voluto offendere quella sua bestia.
    Mi rispose:
    - Magro? Peserà piú d'un quintale!
    E io allora gli dissi:
    - Scusi, e le pare che possa essere intelligente?
    Del porco si parlava. Il signor Lavaccara, con tutta quella rosea prosperità di carne che gli tremola addosso, credette che io dopo il porco ora volessi offendere lui, come se in genere avessi detto che la grassezza esclude l'intelligenza. Ma del porco, ripeto, si parlava Non doveva dunque farsi così brutto il signor Lavaccara né domandarmi:
    - Ma allora io, secondo lei?
    M'affrettai a rispondergli:
    - O che c'entra lei, caro signor Lavaccara? È forse un porco lei? Mi scusi. Quando lei mangia col bello appetito che Dio le conservi sempre, per chi mangia lei? mangia per sé, non ingrassa mica per gli altri. Il porco, invece, crede di mangiare per sé e ingrassa per gli altri.
    Mica rise. Niente. Mi restò lì piantato e duro davanti, piú brutto di prima. E io allora, per smuoverlo, soggiunsi con premura:
    - Poniamo, poniamo, caro signor Lavaccara, che lei con la sua bella intelligenza fosse un porco, mi scusi. Mangerebbe lei? Io no. Vedendomi portare da mangiare, io grugnirei, inorridito: «Nix! Ringrazio, signori. Mangiatemi magro!». Un porco che sia grasso vuol dire che questo ancora non l'ha capito; e se non ha capito questo, può mai essere intelligente? Perciò le ho domandato se il suo era magro. Lei m'ha risposto che pesa piú d'un quintale; e allora mi scusi, caro signor Lavaccara, sarà un bel porco il suo, non dico, ma non è certo un porco intelligente.
    Spiegazione piú chiara di questa mi sembra che non avrei potuto dare al signor Lavaccara. Ma non ha valso a nulla. Anzi è certo che ho fatto peggio; me ne sono accorto parlando. Più mi sforzavo di render chiara la spiegazione e piú il signor Lavaccara si scuriva in viso, masticando:
    - Già... già...
    Perché certo gli è parso che io, facendo ragionare quella sua bestia come un uomo, o meglio, pretendendo che quella sua bestia ragionasse come un uomo, non intendessi mica parlare della bestia, ma di lui.
    È così. So difatti che il signor Lavaccara va portando in giro il mio discorso per farne risaltare la fatuità agli occhi di tutti, perché tutti gli dicano che non avrebbe senso quel mio discorso riferito a una bestia la quale anch'essa crede di mangiare per sé e non può sapere che gli altri la facciano ingrassare per conto loro; e se un porco è nato porco che può farci? per forza come un porco deve mangiare, e dire che non dovrebbe e dovrebbe rifiutare il pasto per farsi mangiar magro è una sciocchezza, perché un tal proposito a un porco non può mai venire in mente.
    Siamo perfettamente d'accordo. Ma se me l'ha cantato lui, santo Dio, il signor Lavaccara. lui in tutti i toni, che quella sua bestia la parola sola le mancava! Io gli ho voluto dimostrare appunto che non poteva averla e non l'aveva per sua fortuna questa famosa intelligenza umana; perché un uomo si, può permetterselo il lusso di mangiare come un porco, sapendo che alla fine, ingrassando, non sarà scampato; ma un porco no, no e no. Perdio, mi sembra così chiaro!
    Offendere? ma che offendere! io ho voluto anzi difendere contro sé stesso il signor Lavaccara e conservargli intero il mio rispetto e levargli fin l'ombra del rimorso d'aver venduto quella sua bestia perché fosse scannata alla festa del Signore della Nave. Se no, alle corte: m'arrabbio sul serio e dico al signor Lavaccara che, o il suo porco era un porco qualunque e non aveva questa famosa intelligenza umana che lui va dicendo, o il vero porco è lui, il signor Lavaccara; e ora lo offendo per davvero
    Questione di logica, signori. E poi qui è in ballo la dignità umana che mi preme salvare ad ogni costo, e non potrei salvarla se non a patto di convincere il signor Lavaccara e tutti quelli che gli danno ragione, che i porci grassi non possono essere intelligenti, perché se questi porci parlano tra sì come il signor Lavaccara pretende e va dicendo, non essi, ma la dignità umana appunto sarebbe scannata in questa festa del Signore della Nave.

    Veramente non so che relazione ci sia tra il Signore della Nave e la scanna dei porci che si suole iniziare il giorno della sua festa. Penso che, siccome d'estate la carne di queste bestie è nociva, tanto che se ne proibisce la macellazione, e con l'autunno il tempo comincia a rinfrescare, si colga l'occasione della festa del Signore della Nave, che cade appunto in settembre, per festeggiare anche, come suol dirsi, le nozze di quell'animale. In campagna perché il Signore della Nave si festeggia nell'antica chiesetta normanna di San Nicola, che sorge un buon tratto fuori del paese, a una svolta dello stradone, tra i campi.
    Ci dov'essere, se si chiama così questo Signore, qualche storia o leggenda ch'io non so. Ma certo è un Cristo che, chi lo fece, piú Cristo di così non lo poteva fare, ci si mise addosso con una tale ferocia di farlo Cristo, che nei duri stinchi inchiodati su la rozza croce nera, nelle costole che gli si possono contare tutte a una a una, tra i guidaleschi e le lividure, non un'oncia di carne gli lasciò che non apparisse atrocemente martoriata. Saranno stati i giudei su la carne viva di Cristo; ma qui fu lui, lo scultore. Quando però si dice, esser Cristo e amare l'umanità! Pur trattato così, fa miracoli senza fine questo Signore della Nave, come si può vedere dalle cento e cento offerte di cera e d'argento e dalle tabelle votive che riempiono tutta una parete della chiesetta; ogni tabella col suo mare blu in tempesta, che non potrebbe essere piú blu di così, e il naufragio della barchetta col nome scritto bello grosso a poppa che ciascuno possa leggerlo bene, e insomma ogni cosa, tra nuvole squarciate, e questo Cristo che appare alle supplicazioni dei naufraghi e fa il miracolo.
    Basta. Io intanto con la discussione su l'intelligenza e la grassezza del porco e il deplorabilissimo malinteso a cui questa discussione ha dato luogo, ho perduto l'invito del signor Lavaccara alla festa.
    Non me ne dolgo tanto per il piacere che mi è mancato, quanto per lo sforzo che ho dovuto fare, assistendo solo da curioso alla festa, per conservare il rispetto a tante brave persone e salvare, come ho detto, la dignità umana.

    Dico la verità. Dati i sani criteri di cui mi sento ormai profondamente compenetrato, non credevo mi dovesse costar molto. Ma alla fine, con l'ajuto di Dio, ci sono riuscito.
    Quando, la mattina, tra la polvere dello stradone ho veduto i branchi e branchetti di tutti quei porcelloni cretacei avviarsi ballonzolanti e grufolanti al luogo della festa, ho voluto guardarli apposta a uno a uno attentamente.
    Bestie intelligenti, quelle? Ma via! Con quel grugno lì? con quelle orecchie? con quel buffo cosino arricciolato dietro? E grugnirebbero così, se fossero intelligenti? Ma se è la voce della stessa ingordigia, quel loro grugnito! Ma se grufolavano finanche nella polvere dello stradone! fino all'ultimo, senza il minimo sospetto che tra poco sarebbero stati scannati. Si fidavano dell'uomo? Ma grazie tante di questa fiducia! Come se l'uomo, da che mondo è mondo e ha pratica coi porci, non avesse sempre dimostrato al porco di appetirne la carne; e che esso perciò non deve affatto fidarsi di lui! Perdio, se l'uomo arriva finanche ad assaggiargli addosso, da vivo, le orecchie e il codino! Meglio di così? Che se poi vogliamo chiamar fiducia la stupidità, siamo logici in nome di Dio, e non diciamo che i porci sono bestie intelligenti.
    Ma scusate, e se non se lo dovesse mangiare, che obbligo avrebbe l'uomo d'allevare il porco con tanta cura, fargli da servo, lui carne battezzata, condurselo al pascolo, perché? che servizio gli rende in compenso del cibo che n'ha? Nessuno vorrà negare che il porco, finché campa, campa bene. Considerando la vita che ha fatto, se poi è scannato se ne deve contentare, perché certo per sé, come porco, non se la meritava.

    E passiamo agli uomini, signori miei! Ho voluto osservarli apposta anch'essi a uno a uno, mentre s'avviavano al luogo della festa.
    Che altro aspetto, signori miei!
    Il dono divino dell'intelligenza traspariva anche dai minimi atti: dal fastidio con cui voltavano la faccia per non prendersi il polverone sollevato dai branchi di quelle bestie, e dal rispetto con cui poi si salutavano l'un l'altro.
    Ma l'aver pensato di coprir di panni l'oscena nudità del corpo, già questo solo, considerate a quale altezza colloca l'uomo sopra uno schifosissimo porco. Potrà mangiare fino a schiattarne e anche imbrodolarsi tutto, un uomo; ma poi ha questo, che si lava e si veste. E quand'anche li immaginassimo nudi per lo stradone, uomini e donne; cosa impossibile, ma ammettiamola pure, non dico che sarebbe un bel vedere, le vecchie, i panciuti, i non puliti; tuttavia, che differenza, pensate, anche a guardar soltanto alla luce dell'occhio umano, specchio dell'anima, e al dono del sorriso e della parola.
    E i pensieri che ciascuno, pur andando alla festa, aveva in mente; forse non del padre o della madre, ma di qualche amico o della nipote o dello zio, che lo scorso anno partecipavano anche loro allegri alla festa campestre. bevevano anche loro quella bell'aria aperta, e adesso, rinserrati nel bujo sottoterra, poverini... Sospiri, rimpianti e anche qualche rimorso. Ma sì! Non erano tutti lieti quei visi; la promessa del godimento di una giornata grassa non spianava su la fronte di tanti magri le rughe delle cure opprimenti e i segni delle fatiche e delle sofferenze. E parecchi compassionevolmente portavano a quella festa d'un giorno la loro miseria di tutto l'anno, per provare se trovasse piú il verso, là tra tanti sanguigni ben pasciuti, d'aprire i denti gialli a uno squallido sorriso.
    E poi pensavo a tutte le arti, a tutti i mestieri a cui quegli uomini attendevano con tanto studio, con tanti travagli e tanti rischi, che i porci certamente non conoscono. Perché un porco è porco e basta; ma un uomo, no, signori, potrà anche esser porco, non dico, ma porco e medico, per esempio, porco e avvocato, porco e professore di belle lettere e filosofia, e notajo e cancelliere e orologiajo e fabbro... Tutti i lavori, le afflizioni, le cure dell'umanità vedevo con soddisfazione rappresentati in quella folla che procedeva per lo stradone.
    A un certo punto, il signor Lavaccara, reggendo per mano, uno di qua, uno di là, i due figliuoli piú piccoli, m'è passato davanti, con la moglie dietro, rosea e prosperosa come lui, tra le due figliuole maggiori. Tutti e sei han fatto finta di non vedermi; ma le due figliuole, tirando via di lungo, si sono tutte invermigliate e uno dei piccini, dopo pochi passi, s'è voltato tre volte a sbirciarmi. La terza volta, così per ridere, io ho cacciato fuori la lingua e l'ho salutato di nascosto con la mano; s'è fatto serio serio, con un viso lungo lungo distratto e s'è subito messo a guardare altrove.
    Mangerà il porco anche lui, povero piccino; forse ne mangerà troppo; ma speriamo che non gli faccia male. Quand'anche però gli dovesse far male, la previdenza umana c'è pure per qualche cosa. Andate a cercarla nei porci, la previdenza; trovatemi un porco farmacista che prepari con l'alchermes l'olio di ricino per i porcellini che si siano guastati lo stomaco per intemperanza!
    Ho seguito da lontano, per un buon tratto, la cara famigliuola del signor Lavaccara che si avviava sicuramente incontro a un solennissimo guasto di stomaco; ma ecco che mi son potuto consolare pensando che domani troverà da un farmacista la purghetta che li guarirà.

    Quante baracche improvvisate con grandi lenzuola palpitanti, nello spiazzo davanti la chiesa di San Nicola, attraversato dallo stradone!
    Taverne all'aperto; tavole, tavole e panche; caratelli e barili di vino; fornelli portatili; banchi e ceppi di macellai.
    Un velo di fumo grasso misto alla polvere annebbiava lo spettacolo tumultuoso della festa; ma pareva che non tanto quella grassa fumicaja, quanto lo stordimento cagionato dalla confusione e dal baccano impedisse di vedere chiaramente.
    Non erano però grida giulive, di festa, ma grida strappate dalla violenza d'un ferocissimo dolore. Oh sensibilità umana! I venditori ambulanti, gridando la loro merce; i tavernai, invitando alle loro mense apparecchiate; i macellai, ai loro banchi di vendita, intonavano il bando, senza forse saperlo, su le strida terribili dei porci che là stesso, in mezzo alla folla, erano macellati, sparati, scorticati, squartati. E le campane della gentile chiesina ajutavano le voci umane, rintronando all'impazzata, senza posa, a coprire pietosamente quelle strida.
    Voi dite: ma perché almeno non si macellavano lontano dalla folla tutti quei porci? E io vi rispondo: ma perché la festa allora avrebbe perduto uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il suo primitivo carattere sacro, d'immolazione.
    Voi non pensate al sentimento religioso, signori.
    Ho visto tanti impallidire, turarsi con le mani gli orecchi, torcere il viso per non vedere l'accoratojo brandito cacciarsi nella gola del porco convulso tenuto violentemente da otto braccia sanguinose smanicate, e per dir la verità, ho torto il viso anch'io, ma lamentando dentro di me amaramente che l uomo a mano a mano, col progredire della civiltà, si fa sempre piú debole, perde sempre più, pur cercando di acquistarlo meglio, il sentimento religioso. Seguita, sì, a mangiarsi il porco; volentieri assiste alla manifattura delle salsicce, alla lavatura della corata al taglio netto del fegato lucido compatto tremolante; ma torce poi il viso all'atto dell'immolazione. E certo è ormai cancellato il ricordo dell'antica Maja, madre del dio Mercurio, da cui il porco ripete il suo secondo nome.

    Ho rivisto sul tardi il signor Lavaccara, sudato e stravolto, senza giacca, recando tra le mani un gran piatto bislungo, avviarsi, seguito dai due piccini, al banco del macellajo al quale aveva venduta quella sua bestia intelligente. Andava a riceverne - patto della vendita - la testa e tutto il fegato.
    Anche questa volta, ma con piú ragione, il signor Lavaccara ha finto di non vedermi. Uno dei due piccini piangeva; ma voglio credere che non piangesse per la prossima vista della pallida testa insanguinata della cara grossa bestia carezzata per circa due anni nel cortile della casa. La contemplerà il padre quella testa dalle larghe orecchie abbattute, dagli occhi gravemente socchiusi tra i peli, per lodarne forse, con rimpianto ancora una volta, l'intelligenza, e per questa maledetta ostinazione si guasterà il piacere di mangiarsela.
    Ah mi avesse invitato a tavola con lui! Mi sarei risparmiato certamente il grande affanno di vedere, io solo a digiuno, io solo con gli occhi non offuscati dai vapori del vino, tutta quella umanità, degna di tanta considerazione e di tanto rispetto, ridursi a poco a poco in uno stato miserando, senza piú neppure un'ombra di coscienza, senza la piú lontana memoria delle innumerevoli benemerenze che in tanti secoli ha saputo acquistarsi sopra le altre bestie della terra con le sue fatiche e con le sue virtù.
    Scamiciati gli uomini, discinte le donne; teste ciondolanti, facce paonazze, occhi imbambolati, danze folli tra tavole capovolte, panche rovesciate, canti sguajati, falò, spari di mortaretti, urli di bimbi, risa sgangherate. Un pandemonio sotto le rosse nubi dense e gravi del tramonto, sopravvenute quasi con spavento.
    Sotto queste nubi divenute a mano a mano piú cupe e fumolente, ho veduto poco dopo, al richiamo delle campane sante, raccogliersi alla meglio tra spinte e urtoni tutta quella folla ubriaca, e imbrancarsi in processione dietro a quel terribile Cristo flagellato su la croce nera, tratto fuori dalla chiesa, sorretto da un chierico pallido e seguito da alcuni preti digiuni, col camice e la stola.
    Due porcelloni. per loro somma ventura scampati al macello, sdrajati a piè d'un fico, vedendo passare quella processione, m'è parso si guardassero tra loro come per dirsi:
    - Ecco, fratello, vedi? e poi dicono che i porci siamo noi.
    Mi sentii fino all'anima ferire da quello sguardo, e fissai anch'io la folla ubriaca che mi passava davanti. Ma no, no, ecco - oh consolazione! - vidi che piangeva, piangeva tutta quella folla ubriaca, singhiozzava, si dava pugni sul petto, si strappava i capelli scarmigliati, cempennando, barellando dietro a quel Cristo flagellato S'era mangiato il porco, sì, s'era ubriacata, è vero, ma ora piangeva disperatamente dietro a quel suo Cristo, l'umanità.
    - Morire scannate è niente, o stupidissimo bestie! - io allora esclamai, trionfante. - Voi, o porci, la passate grassa e in pace la vostra vita, finché vi dura. Guardate questa degli uomini adesso! Si sono imbestiati, si son ubriacati, ed eccoli qua che piangono ora inconsolabilmente, dietro a questo loro Cristo sanguinante su la Croce nera! eccoli qua che piangono il porco che si son mangiato! E volete una tragedia piú tragedia di questa?
     
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  15. p31
     
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    User deleted


    …, per ultima differenza tra noi scrivo quella che non dipende dagli anni, ma da noi. È lo scambio ineguale che corre tra te e me.Attingo al tuo versante senza pericolo che si consumi, estraggo da te a saccheggio le ultime notizie del mondo. Di me tu non raccogli che le rigovernature di righe.
    Il caso che mi fa testimone di tuoi sfoghi, mi collega a un corso di esperienze che ignoro. Tu non sai le mie. Mi guardi alle volte negli occhi per vedere le sbarre e c’è solo il colore opaco di mare lontano. Il colore del mare che sta sulle carte geografiche , mi dici qualche volta quando mi guardi a lungo . Oppure mi dici :”Oggi sei il cameriere del padre di Zorro”, prendendo in giro il fatto che non parlo e non ne ho voglia. Tu sempre hai una pagina pronta come un frutto di mare , me la leggi offrendomela aperta. Ti faccio domande , rispondi molto più là. Ti immergi, scherzi un po’ con tutt’altro, poi sfiati in superficie più lontano e mi hai risposto così; se l’ho capita bene ,se no peggio per me. Ma questo l’ho imparato, aspettarti , con fare distratto ascoltare il mucchio di cose che dici, aspettarti all’orizzonte quando nel flusso delle correnti spunta la tua risposta , rapida , di coda. Quante volte cambi tono: come fai ad avere tante voci, e a non sbagliarti mai su quale usare? Che scambio ineguale Francesca: io passo per scrittore e tu per scritta. Alla fine di questa licenza ti ho tradita. Ho fermato nel tempo fisso le tue parole le nostre differenze, le quinte mobili della nostra intesa. Ho steso confini con linee che non dividono niente. Sono il cartografo europeo che traccia su mappa d’Africa le arbitrarie frontiere degli stati. Mentre appunto le linee, sei già altrove. Io passo per scrittore e tu per scritta. Eppure questa frottola regge contro l’evidenza, perché ha dalla sua l’apparenza dell’atto compiuto, di lettere spedite. Non hai altro scampo al di fuori di scrivere anche tu, Francesca. Non c’è altra via per Icaro , del cielo. Spingi con tutta la forza la risposta nella buca delle lettere , spezzerai la mano del postino, sfonderai il sacco, infine arriverà , perché a nessuno in natura è negata la forza di mettersi in contatto con il resto del creato. Scrivi anche tu, Francesca , di carta sia l’orma del piede che lasci , di carta la paura ,il vino la maternità. Sarà tra te e il mondo lo scambio ineguale , resterà scritto lui. Torna presto.
    Erri


    Da Lettera a Francesca
    Erri De Luca

    Edited by p31 - 13/1/2008, 15:57
     
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